Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 25 settembre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Quindicesima Parte)

 

30. Alla ricerca delle ragioni del cambiamento di sensibilità fra i contemporanei di Galileo. Il Seicento è il secolo in cui William Shakespeare con il suo teatro supera la fama dei letterati italiani, Harvey scopre e dimostra la circolazione del sangue, Boyle fonda la chimica e Willis, che descrive per primo il poligono arterioso alla base del cervello, completa il programma di Leonardo e Vesalio, affermando sulla base di dimostrazioni anatomiche che non c’è spirito nei ventricoli cerebrali e che la ghiandola pineale non può essere sede dell’anima come ipotizzato da Cartesio.

Si potrebbe, forse un po’ banalmente, proporre come registro interpretativo del cambiamento di sensibilità lo spostamento del centro culturale d’Europa dall’Italia all’Inghilterra, ma è evidente che si tratta di una semplificazione che rischia di annullare un’articolata e multiforme varietà di eventi e processi, che percorrono il vecchio continente e si caratterizzano per lo sviluppo di involontarie sinergie, come quella fra la morale dei ricchi mercanti mitteleuropei e la proclamata indipendenza dell’etica degli sperimentatori dalle filosofie religiose.

L’Italia rimaneva il centro dal quale si era irradiata la lingua latina che aveva veicolato la cultura greca e cristiana, dal quale proveniva la teologia con la prima cattedra tomista, la forma medievale di organizzazione degli studi in trivio e quadrivio, il modello rinascimentale dell’uomo, dell’arte e della scienza, ed era il paese in cui sembrava si fosse realizzato il sogno della bellezza che vince sulla brutalità delle armi. Basti pensare alle opere di Shakespeare ambientate in Italia, da Romeo e Giulietta a Tanto rumore per nulla (Much Ado About Nothing), ma soprattutto al caso particolare dell’Otello, The Moor of Venice, rappresentata a corte dal 1604 dallo stesso Shakespeare con la sua compagnia detta dei Servitori di Lord Ciambellano. La trama è plagiata dall’omonima novella scritta nel 1565 da Gian Battista Giraldi Cinthio, che narra di un “Moro molto valoroso”[1] del quale si innamora la bellissima Veneziana Desdemona, del convolare a nozze dei due e del loro vivere felici a Venezia fino a quando il Moro non è inviato a Cipro come Capitano delle forze militari venete e il suo infedele “Alfiero”, che diventerà “Iago”, si innamora di Desdemona. Perfino lo spunto del fazzoletto sottratto dal perfido calunniatore per accusare l’innocente è copiato dal racconto di Giraldi, anche se poi Shakespeare semplifica il prosieguo e tronca la storia all’uccisione di Desdemona.

Non esistevano traduzioni in inglese e la versione in francese di Gabriel Chappuys, reperita dagli studiosi in una raccolta di cento novelle poco nota e diffusa, difficilmente avrebbe potuto raggiungere le terre di oltremanica; dunque, questo plagio avvalora la tesi che Shakespeare conoscesse l’italiano, come ipotizzato da molti per le accurate e dettagliate descrizioni di località e costumi regionali del nostro paese, anche quelli di cui non aveva avuto conoscenza diretta nei suoi viaggi in Italia. In proposito, Waugh ci fornisce un po’ di dati numerici, che mi sembrano eloquenti. Nelle opere teatrali shakespeariane troviamo 106 scene in Italia e 800 riferimenti al nostro paese, con questo numero di menzioni per città: 52 Venezia, 34 Napoli, 25 Milano, 23 Firenze, 22 Padova e 20 Verona, oltre a riferimenti casuali ma precisi circa luoghi di Genova, Mantova, Pisa, Ferrara, Villafranca di Verona, Messina in Sicilia[2] e tanti altri[3].

Per molti in Gran Bretagna era giunto il tempo in cui gli Inglesi dovevano rapportarsi agli Italiani del Rinascimento come i Romani avevano fatto con i Greci: raccoglierne l’eredità e interpretarla da protagonisti con la propria lingua, facendone identità nazionale sostenuta dal nuovo ruolo di potenza militare. L’egemonia della Spagna sull’Europa, cominciata nel 1493 con il riconoscimento da parte del Papa del potere assoluto sulle colonie americane, era finita dopo la sconfitta dell’Armada da parte di Francis Drake, ma gli inglesi stentavano a trovare una propria dimensione culturale da esibire al mondo[4].

Lo stesso conflitto di Carlo I Stuart con il Parlamento capeggiato da Oliver Cromwell può interpretarsi come scontro tra il modello rinascimentale italiano sostenuto dal re, che continuava a invitare artisti italiani alla sua corte, e la nuova concezione che poneva al centro degli interessi e del governo della nazione la politica economica. In questo periodo la cultura pragmatica inglese comincia ad affermarsi come terreno neutro di convivenza, se non di compromesso, tra istanze tanto diverse quali quelle provenienti dalla cultura artistica, dall’empirismo filosofico, dalla nuova realtà industriale e dal ruolo di potenza militare e navale atlantica.

Di proposito non affronto il troppo vasto argomento dell’impatto sociale, con ripercussioni antropologiche e psicologiche, della rivoluzione industriale nata in Inghilterra, limitandomi a notare che la reificazione del bisogno caratterizza lo sviluppo di un rapporto materialistico fra lo stato e i corpi sociali, creando una distanza depersonalizzante rispetto al rapporto simbolico individuale tra il signore rinascimentale e ciascun cittadino. Tale rapporto, nell’emblematico esempio di Lorenzo il Magnifico, si distingueva per il suo fondarsi sulla reciproca identificazione spirituale ed è in primo luogo rappresentato dal dono dell’arte al popolo, attraverso i tesori artistici di pubblica fruizione, che eleggono a priorità i bisogni dello spirito di ciascuno.

La legittimazione di un agire pubblico ispirato al prioritario perseguimento di interessi materiali ha sicuramente introdotto profili sociali inediti e influenzato le coscienze di molti. Il progressivo spostamento della priorità di interesse dal livello spirituale individuale a quello materiale collettivo si può leggere anche nei macroscopici fenomeni di “grande internamento” di cui parla Michel Foucault nella Storia della Follia nell’età classica, che da Parigi percorrono tutta l’Europa, e sono caratterizzati dal custodire sotto sorveglianza in alberghi di stato o in working houses malati di mente, celestini, persone affette da gravi infermità motorie e altre categorie di cittadini considerate marginali, tutte accomunate dall’impossibilità di procurarsi un reddito per il proprio sostentamento.

Si vuole che non vi sia più il cieco, lo storpio, il sofferente che chieda l’elemosina davanti alle chiese, come individuo che richiama la coscienza di un altro individuo ad occuparsi delle sue condizioni di vita. L’indigenza per qualsiasi motivo e soprattutto per l’impossibilità di lavorare dovuta all’essere portatori di un deficit motorio o sensoriale per uno stato morboso, una malformazione congenita o una malattia fisica o psichica, è divenuto un problema di una categoria di cittadini di cui si occupa lo stato in un’ottica collettiva e prioritariamente economica[5].

Un cambiamento di sensibilità, anche se diverso nella sostanza e sviluppato lentamente nei secoli, si può riconoscere anche all’interno degli ordini religiosi, e appare evidente se si confrontano le vicende di questo periodo con quelle di tre secoli prima. I Gesuiti del Seicento attuano in tutti gli stati del mondo in cui hanno conventi delle politiche economiche e, per far fronte ai contrasti con le autorità locali, accrescono il loro potere in termini di possedimenti e di accumulo di beni. All’inizio del secolo, Gesuiti e Domenicani possedevano circa un terzo delle terre produttive nelle colonie spagnole e portoghesi d’America[6]. Può essere utile un confronto per comprendere cosa era accaduto nella coscienza dei religiosi negli ultimi trecento anni.

Nel 1300 alle persecuzioni contro l’Ordine Domenicano il padre generale, il Beato Umberto, reagì ordinando in tutti i conventi la recita delle nuove litanie domenicane[7], e a questa preghiera si attribuì la fine delle persecuzioni contro l’Ordine. La differenza fra le due epoche mi sembra evidente.

Non mancano, tuttavia, i credenti di profonda e meditata spiritualità come Cartesio che, oltre ad esprimere in maniera esemplare il connubio tra razionalismo e cristianesimo, crede sinceramente nel valore dell’opera degli inquisitori, finalizzata a proteggere le anime dalla perdizione causata dal diffondersi delle eresie, al punto da rimanere sorpreso e spaventato dalla censura ricevuta da Galileo Galilei per la tesi eliocentrica, come apprendiamo dalle sue parole nel Discorso sul metodo.

Leggiamo quanto scrive Cartesio: “Esattamente tre anni fa, quando ormai ero giunto alla fine del trattato che contiene tutte queste cose, e incominciavo a rivederne il testo per consegnarlo a uno stampatore, venni a sapere che certe persone per le quali ho la massima deferenza[8], e la cui autorità esercita sulle mie azioni un’influenza non minore di quella che la mia ragione esercita sui miei pensieri, avevano disapprovato un’opinione riguardante la fisica pubblicata poco tempo prima da un altro autore[9]. Ora non voglio dire che la condividessi[10], ma poiché prima che incorresse nella loro censura, non vi avevo notato nulla che potessi immaginare pregiudizievole alla religione e allo stato, e quindi nulla che mi avrebbe impedito di pubblicarla[11], se la ragione me ne avesse persuaso, questa circostanza mi fece temere che anche tra le mie opinioni si sarebbe potuto trovarne qualcuna su cui mi fossi ingannato, nonostante tutta la cura che ho sempre avuto di non accogliere mai di nuove delle quali non avessi dimostrazioni certissime, e di non metterne per iscritto nessuna che potesse essere di danno a qualcuno”[12].

Ma una prassi sviluppata in Inghilterra si sta diffondendo grazie all’internazionalismo universitario: sottoporre al vaglio empirico e logico ogni cosa, compreso l’atteggiamento in materia religiosa.

Hobbes ci fornisce un esempio emblematico di questo radicale cambiamento nel Leviatano, quando afferma che non dobbiamo rinunciare ai nostri sensi, all’esperienza e alla ragione naturale: “Infatti, essi sono i talenti che egli ha posto nelle nostre mani per negoziare fino alla nuova venuta del nostro benedetto Salvatore…”[13].

Preso alla lettera, è inaudito: i talenti non sono più i doni da impiegare secondo la volontà di Dio e poi dichiararsi “servi inutili”, confidando nella sua misericordia come ha insegnato Gesù Cristo, ma risorse per “negoziare”!

Siamo lontani dalla lotta tutta interiore tra desideri dell’istinto e ragioni della fede: è evidente che l’allocutore di Hobbes non è l’Altissimo, ma chi detiene i poteri temporali e governa la politica cristiana; infatti, la filosofia è intesa come strumento per contrastare la dimensione assoluta e apodittica delle ragioni della Chiesa, non certo per negoziare quotidianamente sui comandamenti con l’Onnipotente.

Un atteggiamento del genere, comune tra i pensatori dell’epoca, entra in contrasto stridente con le infervorate dispute pubbliche del passato, come quella tra Savonarola e Mariano della Barba, ma soprattutto rivela la mancanza di attualità di Dio nella coscienza di molte delle menti più influenti, per due ragioni principali: perché atee di fatto o per aver confinato la dimensione spirituale in una ritualità cerimoniale, inconsciamente supportata dalla sua efficacia psicologica lenitiva[14].

Il cristianesimo non sembra essere più la coscienza spirituale comune, la verità che ciascuno ha dentro di sé e con la quale si incontra nel proprio intimo; il cristianesimo sembra essere diventato una religione che si rappresenta nello spazio del mondo, soprattutto attraverso l’influenza sull’apparato normativo dello stato e mediante le istituzioni che sorvegliano direttamente il rispetto dell’ortodossia dei cittadini, prima fra tutte la Santa Inquisizione; un’istituzione molto diversa dalla sua omonima medievale, sia perché al servizio dei sovrani, con un raggio d’azione esteso secondo criteri politici, sia per l’enorme potere che aveva acquisito.

Infatti, proprio per assumere il controllo degli inquisitori nazionali e coloniali che facevano stragi nel nome della Chiesa, Papa Paolo III, con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542, istituisce la Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione[15].

La fama sinistra dell’Inquisizione Spagnola istituita nel 1478 da Papa Sisto IV su richiesta dei sovrani Ferdinando e Isabella di Castiglia, ed estesa poi alle colonie americane, alla Sardegna e al Regno di Sicilia, si deve soprattutto a Thomas de Torquemada, grande inquisitore plenipotenziario nominato nel 1483, il cui solo nome suscitava terrore e orrore dall’America latina al bacino del Mediterraneo. Dopo aver perseguitato i marranos, ossia gli Ebrei convertiti al cristianesimo sospetti di falsa conversione, e i moriscos, cioè gli Arabi ugualmente sospettati di finta adesione al credo cristiano, Torquemada fu titolare in 14 tribunali della Spagna, in 3 del Portogallo, in 3 dell’America Latina e nei due italiani di Sicilia e Sardegna di circa 100.000 procedimenti inquisitori, con una media di 18 inchieste al giorno, 2.000 delle quali concluse con l’esecuzione della pena di morte[16].

È molto interessante sapere cosa accadde a Napoli che, nelle intenzioni di Ferdinando e Isabella di Castiglia, doveva essere assoggettata al potere di Torquemada. L’estensione della giurisdizione inquisitoria spagnola imposta dal viceré don Pedro di Toledo fu rifiutata con ferma opposizione dai corpi sociali del Regno di Napoli che, vantando l’autorità morale della città che era stata capitale culturale della cristianità con la celebrata facoltà teologica di San Tommaso d’Aquino e non riconoscendo coerenza evangelica alla condanna del peccatore da parte dell’uomo, perché il giudizio è solo di Dio, nel 1547 manifestarono l’assoluta contrarietà con un’impressionante sollevazione di popolo.

Ferrante Sanseverino, Principe di Salerno[17], guidò la ribellione spirituale e culturale, prima che politica, di Napoli ai reali di Spagna e, in qualità di ambasciatore dei rivoltosi, si recò ad Augusta a conferire con Carlo V. Per questa missione volle con sé Bernardo Tasso, padre del piccolo Torquato che aveva solo tre anni[18].

La forza materiale e morale che consentì ai Napoletani di rifiutare l’Inquisizione deriva da un complesso ordito di rapporti politici e culturali con altri stati risalenti al secolo precedente e, nel caso di Firenze, all’epoca in cui, dopo l’alleanza tra le due città al tempo di Carlo d’Angiò, fu chiamato il figlio, ossia il Re di Napoli Roberto d’Angiò, a governare Firenze. Il governo saggio e illuminato, dal 1313 al 1318, non solo consentì la stipula della pace tra Guelfi e Ghibellini nel Castelnuovo di Napoli, ma creò una corrente di scambi artistici e culturali, che videro dimorare nello stesso castello napoletano Giotto, Petrarca e Boccaccio.

Gli Aragonesi rinverdirono questi rapporti nel Cinquecento, chiamando Giorgio Vasari, Benedetto da Maiano e Antonio Rossellino a lavorare in Sant’Anna dei Lombardi, una delle cinquecento chiese monumentali della capitale partenopea[19], mentre i Fiorentini di Napoli gestivano parti sempre più importanti del mercato artigianale e artistico, sottraendo a Catalani e Veneziani il primato in molte zone della città. L’asse tra Napoli e Firenze ebbe a lungo il piano segreto della conquista di Milano; in ogni caso, si ebbe poi un’alleanza a tre fra Napoli, Firenze e Milano.

Il re di Napoli Ferrante, oltre agli ottimi rapporti col Papa della Rovere Sisto IV, col quale si imparentò, aveva un grandissimo seguito popolare per aver sedato la rivolta dei Baroni, accogliendo le richieste dei ceti meno abbienti, per aver introdotto la stampa, favorendo fama e carriera di tanti Napoletani colti, e per aver mostrato sensibilità religiosa e valore spirituale in numerosi atti simbolici, quale quello di ospitare nella Reggia del Maschio Angioino o Castelnuovo un frate povero ma amatissimo dal popolo, San Francesco da Paola, già in fama di santità durante la vita. Una realtà così complessa e coesa non si sarebbe mai assoggettata a un potere dittatoriale mascherato da controllo inquisitorio delle coscienze.

Ma, come dicevo, dal 1542 con Paolo III la Congregazione vaticana assume il controllo sui tribunali locali periferici così che, in tutti i casi in cui si prospetti una condanna, gli inquisitori periferici sono tenuti a dar conto personalmente del proprio operato, a inviare gli atti dell’istruttoria a Roma per il riesame, il giudizio definitivo e l’eventuale esecuzione della sentenza. Proprio a motivo di questa impegnativa procedura, secondo alcuni, l’inquisizione patavina avrebbe preferito essere indulgente con Galileo Galilei[20].

 

31. Galileo Galilei cerca i codici della realtà non l’essenza della verità e trova il bello nella ragione che spiega il mistero e dona potere. Scrive Enrico Bellone: “Galileo può ancora oggi regalare l’idea che la scienza cerca la verità e la bellezza, e può vivere solo nella libertà”[21].

Eppure, Galileo sembra in ogni modo affermare che la scienza non cerca la verità[22], intesa nel senso assoluto della filosofia o della religione, ma solo il vero sperimentale, ossia ciò che si può verificare con l’esperienza e dimostrare con la ragione, ovvero ciò che si può cercare con metodo e comprendere con la matematica. Galileo non si oppone all’idea di doversi limitare al ruolo di misuratore, come vogliono i filosofi accademici, e in realtà il suo approdo teorico è indotto da necessità.

Accade infatti in quel periodo, in dimensioni cosmiche ed epocali, quanto accade costantemente nella scienza in ambiti più limitati: gli sviluppi della ricerca e l’accumulo di nuovi dati possono entrare in contraddizione con i presupposti teorici e obbligare i ricercatori a una revisione della concezione di partenza. Ogni campo di ricerca, infatti, si avvia sulla base di un quadro teorico che costituisce l’ambito di ragione entro cui hanno senso e valore i dati che si cercano e le nozioni che si deducono; col proseguire degli studi e l’accumulo quantitativo di elementi, o per effetto di scoperte che costituiscono importanti cambiamenti qualitativi, la cornice teorica di partenza diventa insufficiente o inadeguata, e va riformulata alla luce delle nuove acquisizioni.

In realtà, erano filosofi e teologi accademici ad invadere il campo della scienza senza esserne consapevoli, per l’elaborazione di un pensiero originato dall’antico errore di prendere alla lettera il linguaggio metaforico delle sacre Scritture riferito al cosmo, e poi sviluppato, attraverso il sostegno con idee aristoteliche al modello geocentrico tolemaico, in una forma sempre più rigida, apodittica e dogmatica[23].

Questo problema è così chiaramente presente a Galileo che lo assimila quasi all’errore che in filosofia si chiama nominalistico, consistente nell’attribuire all’astrazione semantica delle parole la qualità delle cose reali: “I nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza ai nomi, perché prima furon le cose, poi i nomi”[24].

Una questione, infatti, che appare evidente nella vicenda galileiana è che le autorità accademiche che fanno appello a quelle religiose, quali custodi dell’ortodossia, identificano il firmamento con la sede materiale del divino, confondendo il “cielo” con il “Cielo”. Un’assimilazione del letterale al metaforico che sicuramente non può essere desunta dai testi evangelici e non è appartenuta alla teologia e alla pastorale dei primi secoli del cristianesimo.

L’uso metaforico nelle sacre scritture, e segnatamente nel Vangelo, di parole come “cielo” e “cuore” è un’evidenza fuori discussione: il valore semantico distinto, nel primo caso della dimensione divina dalla massa d’aria che sovrasta la Terra e nel secondo caso della coscienza con la sua affettività dall’organo che fa circolare il sangue, è facilmente intuito anche da un bambino. L’espressione evangelica “il Regno dei Cieli è in mezzo a noi” costituisce il migliore esempio del valore metaforico caratteristico del senso spirituale cristiano della dimensione celeste.

Uno studio molto interessante da fare, anche se notevolmente impegnativo, è l’analisi diacronica degli scritti degli autori cristiani per cogliere l’epoca in cui comincia ad affermarsi un’accezione letterale, per cercare di comprendere la genesi e le ragioni di un errore che appare così consolidato tra i contemporanei di Galileo da far riflettere.

Considerata la notevole e pervasiva influenza della filosofia d’oltremanica sulla cultura continentale, ho cercato con intense letture in lingua originale di saggi di autori britannici sulla cultura del Seicento un riscontro o, quantomeno, qualche similitudine con la concezione italiana che assimila lo spazio di osservazione astronomica alla dimensione trascendente. Non ho trovato nulla, né tra i cattolici, né tra i puritani, né tra gli anglicani e, come era facile supporre, nemmeno negli scritti dei filosofi empiristi.

Possibile che nella cultura latina e neo-latina, secondo quei modelli di condizionamento linguistico dell’errore logico desunti da Wittgenstein, si sia inconsapevolmente sviluppata una tendenza di pensiero, poi razionalizzata come tesi dottrinaria? Sicuramente molti scarterebbero questa possibilità come ipotesi troppo ardita, ma credo che indagare questo aspetto linguistico come causa o, al contrario, come effetto di un modo di pensare sia tutt’altro che irragionevole.

È interessante notare che nell’idioma delle popolazioni anglosassoni, vari secoli prima della nascita dell’inglese moderno, esisteva già una dicotomia lessicale, con due termini distinti per indicare il cielo: heaven e sky[25].

Heaven è una parola che viene registrata nell’inglese antico già prima del XII secolo e indica il firmamento o, particolarmente al plurale, la sede della divinità e della dimensione di vita immateriale che coincide con il Paradiso per i cristiani. Di antica tradizione l’uso di heaven come termine eufemistico o sostitutivo per non nominare apertamente la divinità.

Sky è un termine nato nel XIII secolo per indicare l’atmosfera più alta o l’espansione di spazio che ci appare come una volta sopra la terra. Molto raramente, e soprattutto prima dell’età moderna, talvolta si trova impiegato come sinonimo di heaven. In ogni caso, dopo il Medioevo la distinzione rimane abbastanza netta e chiara, al punto che nell’uso recente sky è stato adottato quale metonimia di “condizione meteorologica” o addirittura nel senso di “clima” – come nella locuzione temperate English skies di G. G. Coulton – e il verbo to sky si impiega, prevalentemente nell’uso britannico, col significato di lanciare qualcosa in aria.

Sperando che qualcuno tra i lettori si sia incuriosito al punto da approfondire con uno studio specifico questo aspetto della psicologia linguistica dei soggetti storici, torno alla concezione galileiana fondata sulla distinzione e separazione tra il sapere rivelato e la conoscenza ottenibile attraverso lo studio razionale dell’esperienza.

Galileo è fermamente convinto che la principale missione della scienza consista nel descrivere la natura in termini fisici e nel cercare, per quanto possibile, di individuarne il mathema costitutivo; tuttavia, solo dopo molti anni, nel Saggiatore, dichiarò compiutamente la sua visione in un brano fin troppo noto, ma che non posso esimermi dal riportare:

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri ne’ i quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”[26].

La conoscenza di questo approdo ci fornisce uno strumento importante per comprendere l’aspetto più significativo della visione della realtà di Galileo, e va al cuore della sua concezione di ciò che è ammirevole, ma non esaurisce tutti gli aspetti della sua esperienza della bellezza spirituale, letteraria, figurativa e ideale. L’intensa vita sociale e le frequentazioni culturali di alto valore hanno sicuramente arricchito e stimolato una mente sempre attiva e sensibile, quale quella dell’astronomo pisano.

Che Galileo e Caravaggio si siano conosciuti e brevemente frequentati, con ogni probabilità presso salotti come quello dell’amico comune Paolo Gualdi, si può solo dedurre perché non vi sono documenti che lo provino direttamente[27]. Ottavio Leoni, l’autore dell’unico ritratto di Caravaggio realizzato da un altro artista[28], ritrasse anche Galileo Galilei; nell’Ecce Homo dipinto da Michelangelo Merisi nel 1601, la somiglianza del Pilato con Galileo ha indotto alcuni autori a ipotizzare che l’astronomo pisano abbia posato per Caravaggio. Un fatto è certo: la nuova cultura figurativa e le sue peculiarità in rapporto all’estetica, alle priorità comunicative e ai contenuti emozionali sono note a Galileo.

Se, attingendo alle tracce storiche documentali confrontiamo l’atteggiamento psicologico e spirituale dei maggiori artisti di quegli anni con quelli del secolo precedente, notiamo che si è fortemente indebolito, se non è in qualche caso scomparso, il riferimento prioritario a Dio, implicito e personale, ma spesso anche esplicito per le tematiche religiose delle opere[29].

L’artista rinascimentale lavora per compiere il volere divino e mettere a frutto i talenti secondo il dettato evangelico, ponendo in subordine gloria, fama e profitto. Leonardo, Michelangelo, Raffaello e tutti i maggiori protagonisti della rinascita culturale e spirituale concepiscono il senso primario dell’arte quale mezzo di rapporto con la dimensione trascendente, nel solco di una concezione cristiana riflessa in quella purezza di cuore presupposta nella frase di Sant’Agostino: il vostro desiderio è la vostra preghiera. Un motto che riesce difficile attribuire a molti protagonisti della scena artistica barocca, che sembrano orientare contenuti ed estetica della propria arte verso le mode più redditizie, con una vita costellata di pubblici peccati e reati.

Venuta a cadere la demonizzazione di molte manifestazioni di culture di sostrato o esotiche, accade che le espressioni di eccentricità delle feste popolari, le esibizioni di saltimbanchi e fachiri venuti dai paesi orientali, le attrazioni miracolistiche da fiera divenute giochi di prestigio da teatro, poco per volta facciano entrare nel costume, creando accettazione sociale, uno stile comunicativo volto a suscitare attenzione a tutti i costi, a impressionare, stupire, sorprendere.

In quest’epoca si afferma l’uso del termine effetto in pittura col significato che conserva al giorno d’oggi, come nell’espressione riferita dagli esperti d’arte a certe opere non figurative basate su impressionanti contrasti di luce e colore: “Sono solo effetti non è vera arte”.

L’effetto, ossia l’elemento che colpisce e impressiona chi guarda il dipinto, è una risorsa del linguaggio pittorico impiegata fino a quell’epoca con moderazione ed equilibrio nell’economia della composizione, con due scopi ben precisi: produrre bellezza e accrescere il realismo. Ad esempio, opposti cromatici che si danno luce a vicenda, contrasti chiaroscurali estremi, velate trasparenze accostate ad opache consistenze rocciose e riflessi di luce su oggetti in primo piano, erano ordinariamente impiegati per accentuare il gradimento delle parti piacevoli attraverso il contrasto, e per suggerire una gamma di varietà prossima al vero.

Tradizionalmente, e non senza ragione, nella storia dell’arte il luminismo caravaggesco è considerato un mezzo espressivo di tematiche intense e talora estreme di amore e morte tipiche del barocco, ma a me piace pormi nella prospettiva dell’artista stesso, così come fa il regista cinematografico quando gira una “ripresa soggettiva” rendendo il punto di vista del protagonista che si muove nell’ambiente circostante, e rilevare le ragioni che hanno portato Caravaggio a impiegare una luce dominante su altre fonti di luminosità riflessa e concentrata con un’intensità che rivela le forme in modo nitido, limpido, con un’evidenza maggiore di quella della stessa realtà.

Scontata l’osservazione relativa al possesso di una capacità tecnica tale da poter ormai impiegare le procedure e le soluzioni luministiche con disinvolta naturalezza, si deve notare che un contrasto così estremo tra tinte chiare e tinte scure avrebbe potuto incontrare la disapprovazione di molti maestri depositari della maniera rinascimentale, come degli alti prelati assuefatti alla dolce gamma cromatica estesa nei toni intermedi, tipica dei capolavori esposti nelle chiese monumentali italiane.

La scelta luministica rivela un’intenzione ben precisa: Caravaggio si rivolge direttamente al pubblico come fanno coloro che cercano fama attraverso la popolarità; sa che la gente comune sarà colpita dal suo verismo e riconoscerà di non aver mai visto nulla di simile. Non si preoccupa dei custodi del gusto estetico, rompendo per la prima volta quel rapporto di sudditanza con le grandi scuole rinascimentali che aveva caratterizzato tutto il manierismo.

Con Caravaggio si verifica un cambiamento di dimensioni epocali, perché tradizionalmente i referenti privilegiati degli artisti erano gli artisti stessi. Infatti, non esistevano critici d’arte come quelli attuali, che spesso non hanno né talento, né formazione tecnica, né pratica da artisti[30]; la critica la facevano i veri competenti dell’arte, con l’inconveniente di avere a volte giudizi troppo severi perché condizionati da rivalità, ma col vantaggio che spesso i maestri riconoscevano i veri talenti, li incoraggiavano e li presentavano al mondo[31].

In precedenza, il grande pubblico era implicitamente incluso nel sentimento prevalente e considerato propenso ad apprezzare ciò che più valeva per pregio e tecnica; in quest’epoca, gli artisti sono interessati al gusto popolare e a quello particolare degli innumerevoli piccoli committenti che chiedono dipinti per completare l’arredo con raffigurazioni appropriate agli ambienti, secondo preferenze che seguono i modelli della pittura di genere.

In quelle botteghe di pittura lombarde dove si insegnavano le procedure dei Veneti non meno delle nuove tecniche di disegno del dettaglio, i maestri, come Simone Peterzano[32], abilissimi nella figurazione e nel ritratto, avevano progressivamente specializzato settori della propria bottega per la realizzazione di soggetti particolari, che oggi facciamo rientrare nel novero delle nature morte.

Sparse di pesci argentati con molluschi vivi e invitanti limoni appena tagliati che fanno capolino tra verdi alghe umide e trasparenti; pernici, fagiani, beccacce, starne e altra selvaggina da piuma con penne di colori cangianti adagiata su piani posti innanzi a pareti dove pendono dai ganci lepri e conigli dal morbido pelo; alzate o cesti di frutta, con grappoli d’uva dai chicchi trasparenti, pesche dalla superficie vellutata, prugne ad ogni stadio di maturazione, limoni di un elegante e freddissimo giallo, melograni aperti come scrigni di rubini, e poi, tra brocche, calici e caraffe, arance parzialmente sbucciate con nastri di scorze che sembrano decorare i frutti tagliati e posti a riflettere la loro tinta intensa su vassoi d’argento, richiamando i petali variopinti di grandi fiori ornamentali che assorbono la luce, che fa stille sulle gocce d’acqua e attraversa i vasi di cristallo, dando caustiche da sogno su bianche tovaglie o su eleganti copritavolo di pizzo[33].

La tecnica di riproduzione pittorica degli strumenti musicali si evolve creando un ramo distinto di specializzazione, al punto che alcuni pittori di figure pagano degli specialisti per farsi inserire liuti o ghironde nei loro dipinti.

Di tutto quanto ho appena scritto Caravaggio, poco più che fanciullo, era divenuto maestro indiscusso. Aveva acquisito, con questo apprendistato, la buona regola di cercare sempre la procedura migliore per ogni tipo di realizzazione: c’è sempre un segreto, come nei giochi di prestigio, per rendere possibile ciò che l’esercizio renderà perfetto. La magia esiste solo per lo spettatore, per l’artefice è questione di intelligenza, conoscenza e impegno perseverante.

Dalla pittura specializzata e di genere Caravaggio ha appreso la cura del particolare e ha conosciuto il piacere della perfezione, che applica a suo modo anche allo studio della figura: le procedure impiegate ordinariamente per dipingere un volto nella tecnica del ritratto sono da lui seguite per dettagliare ogni parte del corpo, come è evidente nell’Amor vincit omnia ora al museo di Berlino[34].

L’opera è, in ogni sua parte, un saggio di virtuosismo pittorico, col quale Michelangelo Merisi si presenta al mondo attraverso il suo prestigioso committente, ossia il marchese Vincenzo Giustiniani[35]. Per l’autore, il simbolismo ha un valore del tutto secondario rispetto allo scopo principale di stupire con la sua abilità: il corpo del giovinetto che rappresenta Amore, per il quale aveva posato Cecco Boneri[36], il suo allievo prediletto, è una prova della sua straordinaria capacità di riprodurre il nudo, come ogni altra cosa dal vero. Caravaggio pone Boneri nella stessa posizione di San Bartolomeo[37] nel Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti, ma non fa minimamente riferimento alla morfologia di quel corpo di uomo maturo e al disegno michelangiolesco, esibendo la sua capacità di riproduzione fotografica che non necessita di prototipi tecnici, anzi li supera di gran lunga per realismo.

A proposito di realismo, la geniale trovata delle scurissime ali d’aquila copiate e ingrandite dal vero che fanno risaltare il corpo di Amore in piena luce, si deve al prestito delle superbe appendici mobili imbalsamate del rapace da parte dell’amico pittore Orazio Gentileschi[38].

Il simbolismo, che implica la vittoria dell’amore sulle arti, è reso con la riproduzione ai piedi del fanciullo di vari elementi, fra cui spiccano uno spartito e due strumenti musicali: un liuto con cinque corde invece di dodici e un violino cui sono rimaste solo due corde; si tratta di strumenti in disuso copiati con eccellente precisione[39].

Caravaggio, con la stessa cura con la quale progetta le sue opere, costruisce il suo personaggio, seguendo la convinzione diffusa a quel tempo tra i pittori secondo cui, per contrastare la fama leggendaria dei grandi del passato, fosse necessario diventare “mito vivente”.

Sempre lontano dalla sua Milano e dalla famiglia, cerca di esercitare il fascino dello straniero avvolgendo di mistero la sua vita e, costretto a prendere i pasti in locali pubblici, approfitta delle circostanze per fare pubbliche relazioni e diffondere la fama delle sue imprese artistiche. Cura particolarmente l’aspetto e l’abbigliamento; scrive in proposito il pittore contemporaneo Gregorio Sciltian: “Michelangelo da Caravaggio, non appena guadagnava qualche ducato d’oro, si vestiva di abiti così belli che ne parlava tutta Roma. Li portava finché non erano a brandelli”[40].

Ama il gioco, in cui vuol sempre vincere, difende l’onore e il prestigio con la spada[41], ma si lascia prendere la mano dalle sfide, forse perché certo di prevalere per la sua maggiore abilità, forse perché galvanizzato dal potere che può esercitare brandendo un’arma, forse per ragioni psicologiche di personalità e di vita vissuta che non potremo mai conoscere, ma sicuramente secondo un costume costante che era divenuto parte di sé, condizionandone l’esistenza.

Michelangelo Merisi non crea solo uno stile di pittura che dà luogo al movimento artistico del caravaggismo, ma costituisce anche il primo prototipo di pittore schermitore, che si fa giustizia da solo con la spada. Alcuni, accostando i suoi modi a quelli degli antichi cavalieri hanno voluto vedervi un’origine nel suo secondo maestro di pittura, il Cavalier d’Arpino, al secolo Giuseppe Cesari; ma si tratta di una suggestione poco fondata, forse per un equivoco sull’appellativo. Infatti, il maestro di Caravaggio, già Principe dell’Accademia di San Luca, aveva ricevuto l’onorificenza di Cavaliere di Cristo come riconoscimento per la bellezza e il valore dell’Ascensione che aveva dipinto in affresco in San Giovanni in Laterano[42].

Seguendo la tradizione dei pittori spadaccini, che cercano col pennello e con la spada di modificare ad arte la realtà, Salvator Rosa diviene in segreto un paladino dei poveri e degli oppressi. Nato a Napoli[43] nel quartiere Arenella – secondo Cesare De Seta dal Cinquecento diventato nuovo centro della città – dopo l’apprendistato, per reagire alle angherie perpetrate ai danni dei più deboli dalla dominazione spagnola dopo la rivolta di Masaniello, assumeva l’identità occulta di uno schermitore imbattibile e inafferrabile che, abbigliato in nero con maschera e mantello, sembrava emergere dall’ombra per fare giustizia al momento opportuno e poi rientrare nelle tenebre senza farsi identificare. Detto il Formica, e da nessuno mai nemmeno accostato al pittore dai modi raffinati e dal sereno spirito arcadico, appariva come la materializzazione di un personaggio di fantasia in grado di irrompere nella realtà per renderla migliore[44].

Il segreto di Salvator Rosa era custodito dal suo amico e condiscepolo nella bottega di Aniello Falcone, ossia Micco Spadaro, figlio di un noto forgiatore di spade e autore di dipinti che documentano i grandi eventi della Napoli del Seicento, come la spettacolare eruzione del Vesuvio, la rivolta di Masaniello e la peste del 1656. Micco Spadaro, nome d’arte di Domenico Gargiulo, è l’esempio emblematico di una generazione di artisti che, recitando un personaggio, aveva fatto dell’interpretazione creativa e romanzata della vita un mezzo per avvicinare il più possibile la propria identità reale a quella ideale.

A questa possibilità di stile comportamentale si giunge per gradi, e all’origine si possono riconoscere proprio i significativi mutamenti antropologici registrati sul finire del secolo precedente, quando in molti si oppongono allo stile mentale dominante in passato, cui sfuggivano solo i nobili ricchi e gli artisti di successo, costituito dal rassegnato subire una vita priva di stimoli, di possibilità, di novità, di prospettive, di orizzonti, di occasioni; una vita che spegne ogni entusiasmo e rischia di soffocare anche la speranza.

Galileo osserva il cielo esplorando, immergendosi, percorrendo con la mente le distanze astronomiche in un attivo perlustrare e scandagliare con gli occhi, ma partecipando come se entrasse fisicamente, camminando, correndo e fermandosi, nelle dimensioni spaziali che indaga. Non ritiene che esplorare il cielo sia tanto diverso dall’esplorare i mari: come Colombo non aveva consultato le Sacre Scritture o i teologi, ma aveva confidato nella sfericità della terra e negli studi dei cartografi per compiere l’impresa di giungere alle Indie da occidente e scoprì l’America, così Galileo vuole esplorare con gli occhi e i calcoli il cielo, senza occuparsi di metafisica.

Viaggia nel cielo portando sé stesso, con i principi del movimento che sta scoprendo nel campo gravitazionale terrestre e con il desiderio di conoscere, trovando realmente e materialmente il nuovo, secondo un costume mentale sentito come modo e possibilità di vita.

All’origine di un tale spirito vi era certamente in dote abbondante quella naturale spinta esplorativa che oggi il sapere neuroscientifico associa biologicamente a uno stato di buona salute psicofisica, contrapposto all’inibizione mentale degli stati depressivi e patologici, ma sicuramente vi era anche una significativa personale interpretazione psicologica e culturale della dinamica conoscitiva, che dall’epistolario e da altri documenti sembra emergere fornendoci uno spunto interessante e suggestivo: la conoscenza come avventura.

Per avventura si intende un’impresa rischiosa ma ricca di fascino per le sorprese positive che può riservare: l’avventura non esiste in quanto tale nella realtà oggettiva ma è uno stato della mente che investe di qualità positiva gli ostacoli e le difficoltà, esprime fiducia nelle proprie risorse e capacità, e sviluppa un’intensa reazione di piacere ad ogni esperienza di conoscenza. Per la pervasività e coerenza funzionale degli elementi psichici che lo compongono, corrisponde a ciò che chiamo quadro mentale. L’avventura, intesa come stato mentale evocabile, è all’origine di un genere letterario che poi, col cinema, è diventato un filone cinematografico specializzato in tante diverse tipologie, dalla trasposizione dei romanzi d’avventura ai cosiddetti film “on the road”, dalle avventure turistico-amorose a quelle spaziali fantascientifiche.

Nella concezione di Galileo la dimensione personale dell’avventura sembra emergere da scritti e documenti e prevalere decisamente sulla missione etico-estetica caratteristica dei grandi del Rinascimento[45]. La componente culturale che ha favorito l’espressione di questa inclinazione si può facilmente riconoscere fra gli studiosi che preferiscono l’indagine della realtà alla lettura dei classici.

Il Seicento è il secolo in cui emerge dall’ombra e dall’anonimato, acquisisce tratti peculiari e viene in auge una nuova figura: l’artefice non artista[46].

Storicamente può considerarsi un’evoluzione identitaria originata dalla confluenza di ruoli la cui radice si può rintracciare nello spazio antropologico della magia medievale, nel quale vi erano preparatori di filtri e pozioni che intendevano mutare le facoltà psicofisiche, alchimisti che cercavano di produrre artificialmente l’oro, indagatori della natura in cerca di una pietra, una pianta o una fonte che garantisse l’eterna giovinezza. La nuova identità è data anche dalla perdita del carattere diabolico e stregonesco degli eredi superstiti dell’antica tradizione dei druidi e di altre culture arcaiche di sostrato, attraverso l’integrazione nella società cristiana.

L’artefice non artista emerge dopo la ridefinizione cristiana della figura del mago che troviamo in Marsilio Ficino, il grande promotore del neoplatonismo fiorentino: “In conclusione ci sono due generi di magia: uno è quello di coloro che con determinato rituale si procurano l’amicizia dei demoni, forti del cui aiuto spesso producono portenti (e questo tipo di magia fu completamente abolito, quando fu cacciato di regno il principe di questo mondo); l’altro è quello di coloro che, nel rispetto di determinate procedure, riconducono materie naturali a cause naturali, in maniera che acquistano forma, in modi che suscitano l’ammirazione”[47].

L’ultima frase è rilevante in funzione della concezione della bellezza, prodotta col conferire ragione alla natura e mostrarla, ma in Marsilio Ficino ritroviamo soprattutto le argomentazioni che recuperano la figura del “mago”, per secoli demonizzata: “Da questa officina vennero i Magi, primi tra tutti ad adorare Cristo appena nato. Perché mai il nome di mago ti deve far paura? Nel Vangelo è nome gradito e non significa malefico o venefico, ma sapiente e sacerdote. Che cosa vuole essere infatti il mago che fu il primo adoratore di Cristo? Se vuoi saperlo egli è una specie di coltivatore del campo, o meglio, un coltivatore del mondo; ma non per questo egli adora il mondo, come neanche il coltivatore del campo adora il campo”[48].

Un secolo dopo, non è più necessario ribadire che la passione per la realtà naturale non deve considerarsi idolatria, perché ormai è consolidata l’esistenza in tutta Europa di empirici che oggi possiamo descrivere come figure a metà strada tra i depositari di segreti esoterici e i naturalisti ottocenteschi.

L’artefice non artista si distingue dal filosofo tradizionale per il fatto che non è primariamente impegnato in studi di ontologia e metafisica che comunica ai suoi pari, ma interroga la natura e, quando trova fenomeni nuovi e strabilianti, li propone a un suo pubblico, che spera sia il più vasto possibile. Anche se tende ad esibirsi, non può essere confuso con i maghi da fiera, perché il suo non è un mestiere col fine primario del profitto, ma una missione nel campo della conoscenza. È un “uomo delle meraviglie”, che cerca e trova il meraviglioso in natura e lo presenta per donare agli altri quello stesso stupore che ha provato quando l’ignoto si è dischiuso ai suoi occhi come sorprendente, eccezionale e inusitato.

Giovanbattista Della Porta è forse l’esempio più rappresentativo di un tale uomo delle cose straordinarie, e la sua opera De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti (1560)[49], per concezione e contenuti rimane un documento unico per comprendere il senso della scienza come avventura di meraviglia. Il saggio, che compare a Venezia due anni dopo la prima versione in latino[50], è la stupefacente raccolta di curiosità, effetti straordinari, processi ingegnosi, accorgimenti e giochi che spaziano dall’agraria alla fisiognomica, dalle scienze naturali alla mnemotecnica, dall’ottica all’anamorfosi, dall’etimologia alla criptografia, in un testo intenso, vivace, mai pedante e spesso realmente sorprendente, come nell’incipit di questa ricetta: “Taglia la testa a un cavallo overo a un asino, vivo, accio che non sia la virtù più debole, et abbia una pignatta tanto grande che la vi entri, empiela d’olio e di grasso di porco, per modo che la sia coperta…”.

Giovanbattista Della Porta è sorpreso dall’enorme successo della sua opera e si trova a ventitré anni già famoso e con tante richieste di versioni in varie altre lingue; si legge infatti: “…è stato un libro straordinariamente fortunato e diffuso. Ne furono fatte ventitré edizioni dell’originale latino, dieci traduzioni italiane, otto francesi ed altre spagnole, olandesi e altre arabe”[51]. Si deduce che ben pochi studiosi suoi contemporanei non abbiano letto il De i miracoli o Magiae naturalis, come spesso veniva citato dalle prime due parole del titolo latino. L’invidia per tanta fama e la meschinità di alcuni che lo ritengono un rivale nella conquista del consenso intellettuale portano a una denuncia per stregoneria; ma il tribunale dell’Inquisizione riconosce la totale infondatezza dell’accusa e proscioglie Giovanbattista Della Porta da ogni addebito[52].

Con l’intento di condividere l’esperienza della meraviglia, fonda a Napoli l’Accademia dei Secreti, i cui membri dovevano aver scoperto almeno un segreto di natura; ma questo innocente e allegro sodalizio dà fastidio ad alcuni potenti, che ne ottengono la soppressione col sospetto di stregoneria. Il Della Porta, che nel frattempo era diventato un fortunatissimo autore di teatro con ventinove commedie di grande successo per la sapienza dell’intreccio e la brillante e divertente intensità dei dialoghi[53], non si lasciò abbattere dallo scioglimento della sua associazione scientifica e, nel 1610, contribuì alla ricostituzione dell’Accademia dei Lincei con Federico Cesi – che l’anno successivo accolse come nuovo membro Galileo Galilei – e fondò una sezione napoletana della stessa Accademia, assumendo la carica di vice del principe.

L’introduzione del metodo sperimentale da parte di Galileo Galilei sembra determinare il superamento e l’accantonamento definitivo di tutti quegli aspetti legati alla tradizione e che causavano con-fusione tra la straordinarietà del mondo naturale e quella di chi la indaga, come avveniva nell’identità del mago. Carlo Lapucci nella sua presentazione del Della Magia così si esprime, paragonando il Della Porta a Galileo: “Dalla sua nascita (1535) a quella di Galileo (1564) intercorrono circa trent’anni; fra le osservazioni del primo e le pagine scientifiche del secondo pare che sia passato molto più tempo. Il genio di Galileo ha contribuito ad abbagliare fin quasi a far scomparire un mondo quanto mai interessante, nel quale l’uomo muoveva i suoi passi verso il metodo scientifico, animato dal desiderio, dalla curiosità, dalla vivacità dello spirito”[54].

Considerato l’elemento comune tra l’eclettico napoletano e l’astronomo pisano, costituito dalla dimensione avventurosa della ricerca quale viaggio nei segreti della natura, la differenza tra i due nella concezione della bellezza mi consente di caratterizzare in sintesi e per contrasto la visione di Galileo.

Per Giovanbattista Della Porta la bellezza è nel meraviglioso della natura che ha in sé il sorprendente e il misterioso; per Galileo Galilei la bellezza è nella ragione che dissolve il mistero e dona il piacere e il potere della conoscenza.

 

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-25 settembre 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] L’opera di Giraldi è l’Hecatommithi (1565) e Il Moro di Venezia è la settima novella della terza decade.

[2] Vi sono documenti che provano la visita di Shakespeare alle Isole Eolie.

[3] A. Waugh, Keeping Shakespeare Out of Italy, in J. M. Shahan and A. Waugh, Shakespeare Beyond Doubt? Exposing an Industry in Denial, Llumina Press 2013.

[4] Cfr. Will e Ariel Durant, L’Apoteosi Inglese, pp. 42-50, in L’Avvento della Ragione, Vol I, in Will Durant (a cura di), Storia della Civiltà, Edito-Service Editore, Ginevra per Arnoldo Mondadori, Milano 1963.

[5] I marginali senza lavoro ma abili sono reclutati per costruire gli edifici di internamento o per lavorare alla logistica di adattamento dei palazzi requisiti a tal fine; le fabbriche basate sul lavoro degli internati producevano dal tessile alle lenti ottiche di precisione, con un guadagno per lo stato “imprenditore” che forniva vitto e alloggio ai lavoratori.

[6] I Gesuiti furono espulsi dal Giappone e poi, progressivamente, da tutti gli stati in un processo irreversibile che si concluse con la soppressione dell’Ordine da parte del Papa. L’azione dei Gesuiti fu fondamentale per l’abolizione della schiavitù in Brasile, come per l’eliminazione del cannibalismo, ma ciò avvenne accanto all’esportazione di un modello di sviluppo economico molto distante dai principi evangelici.

[7] Ancora adottate dalla Chiesa Cattolica. Ai Domenicani medievali si deve anche il S. Rosario, da loro inizialmente concepito come la meditazione di 20 misteri alternata a 20 serie di Ave Maria, per un totale di 200 Ave Maria.

[8] I membri della Congregazione della Santa Inquisizione.

[9] Galileo Galilei, che Cartesio si guarda bene dal menzionare esplicitamente, così come si guarda bene dal citare l’argomento censurato, ossia la tesi eliocentrica del moto della Terra intorno al Sole, che era stata oggetto di un suo scritto intitolato Mondo, non più pubblicato.

[10] La negazione è una sorta di “abiura preventiva”.

[11] Notare il “mi avrebbe impedito di pubblicarla”.

[12] Cartesio, Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e ricercare la verità nelle scienze, p. 59, Oscar Mondadori, Milano 2007.

[13] Thomas Hobbes, Leviatano, in 2 voll., II vol., p. 365, Fabbri Editori, Milano 1995.

[14] L’impiego delle pratiche rituali di una religione si afferma spesso nella dimensione dell’abitudine, perché in molte persone assume efficacia psicoadattativa. Il meccanismo principale sembra essere costituito dalla neutralizzazione di contenuti mentali problematici nella dimensione atemporale del rito, che sembra privarli del loro potere evocativo di risposte ansiose e di altre forme di sofferenza psichica.

[15] Fu il Papa San Pio X nel 1908 a cambiarne la denominazione in Sacra Congregazione del Sant’Uffizio.

[16] Helen Rawlings, The Spanish Inquisition, p. 15, John Wiley & Sons, New York 2005 (prima ed. 2004).

[17] Ferrante Sanseverino era nato a Napoli il 18 gennaio del 1507 dalla nobile famiglia napoletana dei Sanseverino che aveva possedimenti in Salerno. Era nipote di Re Ferdinando II d’Aragona detto “Ferdinando il Cattolico”.

[18] Cfr. Lanfranco Caretti (a cura di) Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, in Cronologia pp. XXXVII-XXXVIII, “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1976. Il palazzo di Ferrante Sanseverino a Napoli dal 1584, pur conservando la sua facciata, è convertito nella chiesa del Gesù Nuovo, per questa ragione architettonicamente unica come tempio cristiano.

[19] I lavori, promossi da Alfonso II, furono possibili grazie al finanziamento della famiglia Strozzi che aveva a Napoli una filiale della sua banca di Firenze per il pagamento degli artisti della nutrita “colonia” di Fiorentini.

[20] Alcuni autori citano pronunciamenti di autorità, che in realtà erano routinari in questi casi, interpretandoli come interventi in difesa di Galileo Galilei, e sostenendo che tali interventi avrebbero “salvato” il matematico.

[21] Enrico Bellone, Galileo: le opere e i giorni di una mente inquieta, p. 1, Le Scienze, Milano 2000.

 

[22] Che la scienza non cerchi la verità e lo scienziato sia sempre libero di esporre le proprie congetture anche se appaiono assurde ai filosofi è affermato già dal teologo Osiander, presentando il trattato di Copernico del 1543 letto da Galileo.

[23] Si erano costituite in questo campo quelle “parole dure come sassi” di cui parla Nietzsche in Aurora, contro le quali, inciampando, è più facile che ci si rompa una gamba che si riesca a spostarle.

[24] Cit. in Enrico Bellone, op. cit., p.13.

[25] Le informazioni che seguono sono tratte dagli studi dei lessicografi della commissione Merriam-Webster, che attingono ad una tradizione di 150 anni, che ebbe inizio con i documenti raccolti da Noah Webster tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.

[26] Galileo Galilei, Il Saggiatore, capitolo VI, Roma 1623: stampato con l’imprimatur del teologo domenicano Nicolò Riccardi e la dedica al nuovo Papa Urbano VIII da parte degli Accademici dei Lincei. Il trattato nasce da una disputa col gesuita Orazio Grassi sull’origine delle comete: Grassi propose un’origine delle comete in un trattato, Galileo rispose a nome di un suo allievo, Mario Guiducci, con un Discorso delle comete; Grassi allora scrisse la Libra astronomica ac philosophica con lo pseudonimo di Lotario Sarsi (“Lotario Sarsi Sigensano” era anagramma di Oratio Grassi “di Savona” nell’antico idioma). Galileo stette al gioco e scrisse un’articolata risposta a Lotario Sarsi ma, questa volta, a proprio nome: Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano. L’analisi critica contemporanea ha rivalutato alcune obiezioni di Grassi, che si erano perse nello spregio e nel ridicolo gettato da Galileo, il quale approfitta di alcuni strafalcioni del sacerdote per discreditarne tutta l’opera.

[27] In mancanza di un contratto di commissione per un dipinto o di una denuncia – atti che hanno consentito di attestare molti rapporti di Caravaggio – si possono solo fare deduzioni.

[28] Realizzato a gessetti e carboncino su carta; tutte le altre immagini del volto del Caravaggio sono autoritratti, veri o presunti tali.

[29] Non è un caso che Caravaggio tradisca il senso delle tematiche religiose: nelle Sette Opere di Misericordia per colpire lo spettatore raffigura una donna che offre un seno alla bocca di un vecchio (la cosiddetta “carità romana”), presentando un peccato di lussuria come opera di misericordia.

[30] Alludo soprattutto alla deriva dell’ultima parte del Novecento, caratterizzata da critici che gestivano il “discorso sull’arte” e il mercato delle opere, interpretandone il senso e il valore in base a una pseudo-ermeneutica tratta da costruzioni intellettualistiche alla moda, che spesso riducevano l’artefice a una sorta di inconsapevole esecutore in preda alle virtù di un inconscio depositario del significato, da loro “rivelato” all’osservatore.

[31] Abbiamo visto il caso di Filippo Brunelleschi che al concorso per le porte del Battistero di Firenze riconosce Lorenzo Ghiberti più bravo di lui e rinuncia alla commessa in favore del rivale.

[32] Simone Peterzano, allievo di Tiziano e maestro di Caravaggio, fu pittore completo ricordato soprattutto per gli affreschi milanesi nel segno della spiritualità di San Carlo Borromeo, ma anche pregevole esecutore di ritratti olio su tela (v. autoritratto del 1589) con la tecnica che sfrutta la trasparenza del fondo, poi ampiamente usata da Caravaggio.

[33] L’arte del pizzo nata a Venezia nel Quattrocento era praticata e apprezzata in territorio lombardo e nel resto d’Italia.

[34] Il titolo dell’allegoria è tratto dal celebre verso di Virgilio omnia vincit amor et nos cedamus amori (Egloghe X, 69).

[35] Giustiniani pagò 300 scudi il dipinto: (ASR, Archivio Giustiniani, Sezione Famiglie. Inventari 35, busta n. 10). Giustiniani, grande amico del Cardinale Dal Monte, il più importante committente di Caravaggio, comprò il San Matteo e l’Angelo realizzato per San Luigi dei Francesi, ma rifiutato per motivi di decoro.

[36] Francesco Boneri detto Cecco non era “un monellaccio romano che viveva con lo stesso pittore e che forse era il suo amante”, come si legge in Wikipedia (ipotesi infondata, avanzata da Richard Symons e ripresa da molti studiosi omosessuali come fosse un fatto), ma un ottimo allievo che poi realizzò opere come la Cacciata dei mercanti dal tempio (al Museo di Stato di Berlino), per le quali è unanimemente considerato uno degli interpreti più originali del caravaggismo europeo. All’epoca era uso costante che gli allievi abitassero in casa di maestri e professori, come nel caso di Vincenzo Viviani ed Evangelista Torricelli che vivevano con Galileo. Caravaggio fu anche maestro d’armi di Boneri che, per il frequente ricorso alle armi bianche, acquistò fama di uomo dal “pugnale facile”. Boneri è stato identificato anche con il “paggio” di cui parlava Antonio van Monder che, all’uso del tempo, da ragazzo portava le armi e si occupava della cavalcatura, come i valletti di nobili e cavalieri.

[37] Alcuni autori, che hanno sostenuto l’omosessualità di Caravaggio senza disporre di prove, hanno ritenuto che la posa “scandalosamente rivolta agli osservatori” del giovane modello comprovasse l’orientamento omosessuale del maestro; naturalmente ignorando che si trattava della posa di un santo della Cappella Sistina, come compiutamente si legge in Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, p. 468, Newton Compton, Roma 2005. L’accostamento al San Bartolomeo era già stato proposto in uno studio del 1973-74.

[38] Lo sappiamo dal suo racconto nella deposizione al “Processo Baglioni”. Orazio Gentileschi era un pittore di alto livello tecnico con grandi abilità nella gamma cromatica dei toni chiari; padre di Artemisia, aveva adottato il cognome materno e dal padre, Giovan Battista Lomi, aveva preso l’identità fiorentina, pur essendo lui nato a Pisa.

[39] Giustiniani, musicista dilettante e autore di uno studio di argomento musicale, era fra coloro che si dolevano perché il liuto era caduto in disuso con la musica barocca, scritta quasi esclusivamente per tiorba padovana, uno strumento a corde derivato dal liuto ma con otto cori e otto bordoni da suonare esclusivamente a vuoto.

[40] Gregorio Sciltian, Trattato sulla Pittura, p. 30, Hoepli, Milano 1980.

[41] Ferì il notaio Mariano Pasqualone per aver insidiato la sua fidanzata Lena. Giocando a pallacorda con Ranuccio Tommasoni, rivale nell’amore per Fillide Melandroni, a causa di un fallo, vi litigò e il diverbio sfociò in duello: Caravaggio fu ferito e, a sua volta, colpì il Tommasoni, ma mortalmente. L’omicidio portò alla condanna in contumacia per decapitazione (da cui le tante teste mozzate, a volte autoritratti, che appaiono nei suoi dipinti) con esecutività della sentenza dovunque fosse stato rintracciato. La revoca della sentenza da Parte di Paolo V, per intercessione del nipote Scipione Borghese amico di Caravaggio, non raggiunse in tempo il pittore che morì forse di brucellosi a soli 38 anni.

[42] Il Cavalier d’Arpino, maestro anche di Guido Reni, affrescò la volta della sagrestia della Certosa di San Martino a Napoli.

[43] Caravaggio ebbe studio e ultima dimora a Napoli in Palazzo Cellamare (Via Chiaia) dove era ospite di Costanza Colonna; non lontano operava il grande caravaggista maestro di Salvator Rosa Jusepe de Ribera (lo Spagnoletto), inizialmente attivo ai Quartieri Spagnoli (dove lavorava Caravaggio nel primo periodo napoletano) presso la bottega del suocero, il pittore Giovanni Bernardino Azzolino.

[44] Alessandro Blasetti realizzò il primo film sull’artista spadaccino, intitolato Un’avventura di Salvator Rosa e interpretato da Gino Cervi. La doppia vita del pittore napoletano ispirò anche il romanziere Johnston McCulley nel creare il personaggio di Don Diego de la Vega, che in segreto si trasforma in Zorro (la Volpe), lo spadaccino mascherato e avvolto in un mantello nero, che difende i deboli nella Los Angeles del tempo in cui la California era colonia spagnola.

[45] La concezione della conoscenza come esperienza avventurosa è probabilmente sempre esistita nella storia umana, ma la sua caratterizzazione culturale attraverso figure sociali e associazioni a supporto è tipica dell’epoca moderna e in Europa ha avuto tra il Settecento e l’Ottocento, con Goethe, la sua consacrazione. Il prototipo del “Viaggio in Italia” è rimasto nella cultura mitteleuropea. I viaggi di studio, che non sono più la periegetica storico-geografica degli antichi Greci o l’arte specializzata di esploratori e navigatori, sono concepiti come conoscenza di paesi e popoli per diretta esperienza.

[46] È una mia definizione concepita per opposizione rispetto alla caratterizzazione artistica dell’homo faber rinascimentale, con l’intento di includere tutte le figure rilevanti in quella transizione che ha portato al definirsi dell’identità sociale dello scienziato moderno.

[47] Marsilio Ficino, De vita, Appendice, p. 435, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1991. Si noti: l’ammirazione per i modi.

[48] Marsilio Ficino, op. cit., idem.

[49] Dell’opera originale esiste un esemplare autentico di proprietà della Signora Eleonora Giaconi, che ha concesso alla casa editrice D’Anna di Firenze di realizzare per copia anastatica un’edizione fuori commercio in esemplari limitati; possiedo uno di questi esemplari sul cui frontespizio si legge: DEI MIRACOLI ET MARAVIGLIOSI EFFETTI dalla natura prodotti. LIBRI IIII, DI GIOVANBATTISTA PORTA Napolitano, nuovamente tradotti di Latino in lingua volgare et con molta fatica illustrati. IN VENETIA appresso Ludovico Avanzi MDLX.

[50] Giovanbattista Della Porta, Magiae Naturalis, sive de Miraculis rerum naturalium, libri IIII, M. Cancer, Napoli 1558.

[51] Vasco Ronchi, Storia della luce – Da Euclide a Einstein, p. 97, Laterza, Bari 1983. Già nella seconda edizione appaiono acute considerazioni sul cannocchiale, sul microscopio e sulla camera oscura.

[52] Molti anni dopo, l’economista e magistrato francese Jean Bodin riformulò l’accusa, che risultò ancora una calunnia.

[53] Cfr. Giambattista dalla Porta, Commedie, 4 voll., Gennaro Muzio, Napoli 1726; M. Torrini, Giovan Battista Della Porta nell’Europa del suo tempo, Guida, Napoli 1990.

[54] Giovanbattista Della Porta, Dei Miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti, p. V (Presentazione), In Venetia appresso Ludovico Avanzi MDLX, nell’anastatica fuori commercio citata in precedenza.