Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 25 settembre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Quindicesima
Parte)
30. Alla ricerca delle ragioni del
cambiamento di sensibilità fra i contemporanei di Galileo. Il Seicento
è il secolo in cui William Shakespeare con il suo teatro supera la fama dei
letterati italiani, Harvey scopre e dimostra la circolazione del sangue, Boyle
fonda la chimica e Willis, che descrive per primo il poligono arterioso alla
base del cervello, completa il programma di Leonardo e Vesalio, affermando sulla
base di dimostrazioni anatomiche che non c’è spirito nei ventricoli cerebrali e
che la ghiandola pineale non può essere sede dell’anima come ipotizzato da Cartesio.
Si potrebbe, forse un po’ banalmente, proporre come registro
interpretativo del cambiamento di sensibilità lo spostamento del centro
culturale d’Europa dall’Italia all’Inghilterra, ma è evidente che si tratta di
una semplificazione che rischia di annullare un’articolata e multiforme varietà
di eventi e processi, che percorrono il vecchio continente e si caratterizzano
per lo sviluppo di involontarie sinergie, come quella fra la morale dei ricchi
mercanti mitteleuropei e la proclamata indipendenza dell’etica degli sperimentatori
dalle filosofie religiose.
L’Italia rimaneva il centro dal quale si era
irradiata la lingua latina che aveva veicolato la cultura greca e cristiana,
dal quale proveniva la teologia con la prima cattedra tomista, la forma
medievale di organizzazione degli studi in trivio e quadrivio, il modello
rinascimentale dell’uomo, dell’arte e della scienza, ed era il paese in cui
sembrava si fosse realizzato il sogno della bellezza che vince sulla brutalità
delle armi. Basti pensare alle opere di Shakespeare ambientate in Italia, da Romeo
e Giulietta a Tanto rumore per nulla (Much Ado About Nothing),
ma soprattutto al caso particolare dell’Otello, The Moor of Venice,
rappresentata a corte dal 1604 dallo stesso Shakespeare con la sua compagnia
detta dei Servitori di Lord Ciambellano. La trama è plagiata dall’omonima
novella scritta nel 1565 da Gian Battista Giraldi Cinthio, che narra di un “Moro
molto valoroso”[1]
del quale si innamora la bellissima Veneziana Desdemona, del convolare a nozze
dei due e del loro vivere felici a Venezia fino a quando il Moro non è inviato a
Cipro come Capitano delle forze militari venete e il suo infedele “Alfiero”,
che diventerà “Iago”, si innamora di Desdemona. Perfino lo spunto del
fazzoletto sottratto dal perfido calunniatore per accusare l’innocente è copiato
dal racconto di Giraldi, anche se poi Shakespeare semplifica il prosieguo e
tronca la storia all’uccisione di Desdemona.
Non esistevano traduzioni in inglese e la versione
in francese di Gabriel Chappuys, reperita dagli studiosi in una raccolta di
cento novelle poco nota e diffusa, difficilmente avrebbe potuto raggiungere le
terre di oltremanica; dunque, questo plagio avvalora la tesi che Shakespeare
conoscesse l’italiano, come ipotizzato da molti per le accurate e dettagliate
descrizioni di località e costumi regionali del nostro paese, anche quelli di
cui non aveva avuto conoscenza diretta nei suoi viaggi in Italia. In proposito,
Waugh ci fornisce un po’ di dati numerici, che mi sembrano eloquenti. Nelle opere
teatrali shakespeariane troviamo 106 scene in Italia e 800 riferimenti al
nostro paese, con questo numero di menzioni per città: 52 Venezia, 34 Napoli,
25 Milano, 23 Firenze, 22 Padova e 20 Verona, oltre a riferimenti casuali ma
precisi circa luoghi di Genova, Mantova, Pisa, Ferrara, Villafranca di Verona,
Messina in Sicilia[2]
e tanti altri[3].
Per molti in Gran Bretagna era giunto il tempo in
cui gli Inglesi dovevano rapportarsi agli Italiani del Rinascimento come i
Romani avevano fatto con i Greci: raccoglierne l’eredità e interpretarla da
protagonisti con la propria lingua, facendone identità nazionale sostenuta dal nuovo
ruolo di potenza militare. L’egemonia della Spagna sull’Europa, cominciata nel
1493 con il riconoscimento da parte del Papa del potere assoluto sulle colonie
americane, era finita dopo la sconfitta dell’Armada da parte di Francis
Drake, ma gli inglesi stentavano a trovare una propria dimensione culturale da
esibire al mondo[4].
Lo stesso conflitto di Carlo I Stuart con il
Parlamento capeggiato da Oliver Cromwell può interpretarsi come scontro tra il
modello rinascimentale italiano sostenuto dal re, che continuava a invitare
artisti italiani alla sua corte, e la nuova concezione che poneva al centro
degli interessi e del governo della nazione la politica economica. In questo periodo
la cultura pragmatica inglese comincia ad affermarsi come terreno neutro di
convivenza, se non di compromesso, tra istanze tanto diverse quali quelle
provenienti dalla cultura artistica, dall’empirismo filosofico, dalla nuova realtà
industriale e dal ruolo di potenza militare e navale atlantica.
Di proposito non affronto il troppo vasto argomento
dell’impatto sociale, con ripercussioni antropologiche e psicologiche, della
rivoluzione industriale nata in Inghilterra, limitandomi a notare che la reificazione
del bisogno caratterizza lo sviluppo di un rapporto materialistico
fra lo stato e i corpi sociali, creando una distanza depersonalizzante rispetto
al rapporto simbolico individuale tra il signore rinascimentale e ciascun
cittadino. Tale rapporto, nell’emblematico esempio di Lorenzo il Magnifico, si distingueva
per il suo fondarsi sulla reciproca identificazione spirituale ed è in primo
luogo rappresentato dal dono dell’arte al popolo, attraverso i tesori artistici
di pubblica fruizione, che eleggono a priorità i bisogni dello spirito di
ciascuno.
La legittimazione di un agire pubblico ispirato al prioritario
perseguimento di interessi materiali ha sicuramente introdotto profili sociali
inediti e influenzato le coscienze di molti. Il progressivo spostamento della priorità
di interesse dal livello spirituale individuale a quello materiale
collettivo si può leggere anche nei macroscopici fenomeni di “grande internamento”
di cui parla Michel Foucault nella Storia della Follia nell’età classica,
che da Parigi percorrono tutta l’Europa, e sono caratterizzati dal custodire
sotto sorveglianza in alberghi di stato o in working houses malati di mente,
celestini, persone affette da gravi infermità motorie e altre categorie di
cittadini considerate marginali, tutte accomunate dall’impossibilità di procurarsi
un reddito per il proprio sostentamento.
Si vuole che non vi sia più il cieco, lo storpio, il
sofferente che chieda l’elemosina davanti alle chiese, come individuo che richiama
la coscienza di un altro individuo ad occuparsi delle sue condizioni di vita. L’indigenza
per qualsiasi motivo e soprattutto per l’impossibilità di lavorare dovuta all’essere
portatori di un deficit motorio o sensoriale per uno stato morboso, una
malformazione congenita o una malattia fisica o psichica, è divenuto un problema
di una categoria di cittadini di cui si occupa lo stato in un’ottica collettiva
e prioritariamente economica[5].
Un cambiamento di sensibilità, anche se diverso
nella sostanza e sviluppato lentamente nei secoli, si può riconoscere anche all’interno
degli ordini religiosi, e appare evidente se si confrontano le vicende di
questo periodo con quelle di tre secoli prima. I Gesuiti del Seicento attuano
in tutti gli stati del mondo in cui hanno conventi delle politiche economiche e,
per far fronte ai contrasti con le autorità locali, accrescono il loro potere
in termini di possedimenti e di accumulo di beni. All’inizio del secolo, Gesuiti
e Domenicani possedevano circa un terzo delle terre produttive nelle colonie
spagnole e portoghesi d’America[6]. Può
essere utile un confronto per comprendere cosa era accaduto nella coscienza dei
religiosi negli ultimi trecento anni.
Nel 1300 alle persecuzioni contro l’Ordine Domenicano
il padre generale, il Beato Umberto, reagì ordinando in tutti i conventi la
recita delle nuove litanie domenicane[7], e a questa
preghiera si attribuì la fine delle persecuzioni contro l’Ordine. La differenza
fra le due epoche mi sembra evidente.
Non mancano, tuttavia, i credenti di profonda e meditata
spiritualità come Cartesio che, oltre ad esprimere in maniera esemplare il connubio
tra razionalismo e cristianesimo, crede sinceramente nel valore dell’opera
degli inquisitori, finalizzata a proteggere le anime dalla perdizione causata dal
diffondersi delle eresie, al punto da rimanere sorpreso e spaventato dalla censura
ricevuta da Galileo Galilei per la tesi eliocentrica, come apprendiamo dalle
sue parole nel Discorso sul metodo.
Leggiamo quanto scrive Cartesio: “Esattamente tre
anni fa, quando ormai ero giunto alla fine del trattato che contiene tutte
queste cose, e incominciavo a rivederne il testo per consegnarlo a uno stampatore,
venni a sapere che certe persone per le quali ho la massima deferenza[8], e la
cui autorità esercita sulle mie azioni un’influenza non minore di quella che la
mia ragione esercita sui miei pensieri, avevano disapprovato un’opinione riguardante
la fisica pubblicata poco tempo prima da un altro autore[9]. Ora
non voglio dire che la condividessi[10], ma poiché
prima che incorresse nella loro censura, non vi avevo notato nulla che potessi
immaginare pregiudizievole alla religione e allo stato, e quindi nulla che mi avrebbe
impedito di pubblicarla[11], se
la ragione me ne avesse persuaso, questa circostanza mi fece temere che anche
tra le mie opinioni si sarebbe potuto trovarne qualcuna su cui mi fossi ingannato,
nonostante tutta la cura che ho sempre avuto di non accogliere mai di nuove delle
quali non avessi dimostrazioni certissime, e di non metterne per iscritto
nessuna che potesse essere di danno a qualcuno”[12].
Ma una prassi sviluppata in Inghilterra si sta diffondendo
grazie all’internazionalismo universitario: sottoporre al vaglio empirico e logico
ogni cosa, compreso l’atteggiamento in materia religiosa.
Hobbes ci fornisce un esempio emblematico di questo radicale
cambiamento nel Leviatano, quando afferma che non dobbiamo rinunciare ai
nostri sensi, all’esperienza e alla ragione naturale: “Infatti, essi sono i
talenti che egli ha posto nelle nostre mani per negoziare fino alla nuova venuta
del nostro benedetto Salvatore…”[13].
Preso alla lettera, è inaudito: i talenti non sono più
i doni da impiegare secondo la volontà di Dio e poi dichiararsi “servi inutili”,
confidando nella sua misericordia come ha insegnato Gesù Cristo, ma risorse per
“negoziare”!
Siamo lontani dalla lotta tutta interiore tra desideri
dell’istinto e ragioni della fede: è evidente che l’allocutore di Hobbes
non è l’Altissimo, ma chi detiene i poteri temporali e governa la politica cristiana;
infatti, la filosofia è intesa come strumento per contrastare la dimensione assoluta
e apodittica delle ragioni della Chiesa, non certo per negoziare quotidianamente
sui comandamenti con l’Onnipotente.
Un atteggiamento del genere, comune tra i pensatori
dell’epoca, entra in contrasto stridente con le infervorate dispute pubbliche del
passato, come quella tra Savonarola e Mariano della Barba, ma soprattutto rivela
la mancanza di attualità di Dio nella coscienza di molte delle menti più
influenti, per due ragioni principali: perché atee di fatto o per aver confinato
la dimensione spirituale in una ritualità cerimoniale, inconsciamente supportata
dalla sua efficacia psicologica lenitiva[14].
Il cristianesimo non sembra essere più la coscienza
spirituale comune, la verità che ciascuno ha dentro di sé e
con la quale si incontra nel proprio intimo; il cristianesimo sembra essere diventato
una religione che si rappresenta nello spazio del mondo, soprattutto
attraverso l’influenza sull’apparato normativo dello stato e mediante le
istituzioni che sorvegliano direttamente il rispetto dell’ortodossia dei cittadini,
prima fra tutte la Santa Inquisizione; un’istituzione molto diversa dalla sua omonima
medievale, sia perché al servizio dei sovrani, con un raggio d’azione esteso
secondo criteri politici, sia per l’enorme potere che aveva acquisito.
Infatti, proprio per assumere il controllo degli
inquisitori nazionali e coloniali che facevano stragi nel nome della Chiesa,
Papa Paolo III, con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542, istituisce
la Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione[15].
La fama sinistra dell’Inquisizione Spagnola istituita
nel 1478 da Papa Sisto IV su richiesta dei sovrani Ferdinando e Isabella di
Castiglia, ed estesa poi alle colonie americane, alla Sardegna e al Regno di Sicilia,
si deve soprattutto a Thomas de Torquemada, grande inquisitore plenipotenziario
nominato nel 1483, il cui solo nome suscitava terrore e orrore dall’America latina
al bacino del Mediterraneo. Dopo aver perseguitato i marranos, ossia gli
Ebrei convertiti al cristianesimo sospetti di falsa conversione, e i moriscos,
cioè gli Arabi ugualmente sospettati di finta adesione al credo cristiano, Torquemada
fu titolare in 14 tribunali della Spagna, in 3 del Portogallo, in 3 dell’America
Latina e nei due italiani di Sicilia e Sardegna di circa 100.000 procedimenti inquisitori,
con una media di 18 inchieste al giorno, 2.000 delle quali concluse con l’esecuzione
della pena di morte[16].
È molto interessante sapere cosa accadde a Napoli che,
nelle intenzioni di Ferdinando e Isabella di Castiglia, doveva essere assoggettata
al potere di Torquemada. L’estensione della giurisdizione inquisitoria spagnola
imposta dal viceré don Pedro di Toledo fu rifiutata con ferma opposizione dai
corpi sociali del Regno di Napoli che, vantando l’autorità morale della città che
era stata capitale culturale della cristianità con la celebrata facoltà teologica
di San Tommaso d’Aquino e non riconoscendo coerenza evangelica alla condanna del
peccatore da parte dell’uomo, perché il giudizio è solo di Dio, nel 1547 manifestarono
l’assoluta contrarietà con un’impressionante sollevazione di popolo.
Ferrante Sanseverino, Principe di Salerno[17],
guidò la ribellione spirituale e culturale, prima che politica, di Napoli ai
reali di Spagna e, in qualità di ambasciatore dei rivoltosi, si recò ad Augusta
a conferire con Carlo V. Per questa missione volle con sé Bernardo Tasso, padre
del piccolo Torquato che aveva solo tre anni[18].
La forza materiale e morale che consentì ai
Napoletani di rifiutare l’Inquisizione deriva da un complesso ordito di
rapporti politici e culturali con altri stati risalenti al secolo precedente e,
nel caso di Firenze, all’epoca in cui, dopo l’alleanza tra le due città al tempo
di Carlo d’Angiò, fu chiamato il figlio, ossia il Re di Napoli Roberto d’Angiò,
a governare Firenze. Il governo saggio e illuminato, dal 1313 al 1318, non solo
consentì la stipula della pace tra Guelfi e Ghibellini nel Castelnuovo di
Napoli, ma creò una corrente di scambi artistici e culturali, che videro
dimorare nello stesso castello napoletano Giotto, Petrarca e Boccaccio.
Gli Aragonesi rinverdirono questi rapporti nel Cinquecento,
chiamando Giorgio Vasari, Benedetto da Maiano e Antonio Rossellino a lavorare
in Sant’Anna dei Lombardi, una delle cinquecento chiese monumentali della
capitale partenopea[19],
mentre i Fiorentini di Napoli gestivano parti sempre più importanti del mercato
artigianale e artistico, sottraendo a Catalani e Veneziani il primato in molte
zone della città. L’asse tra Napoli e Firenze ebbe a lungo il piano segreto
della conquista di Milano; in ogni caso, si ebbe poi un’alleanza a tre fra Napoli,
Firenze e Milano.
Il re di Napoli Ferrante, oltre agli ottimi rapporti
col Papa della Rovere Sisto IV, col quale si imparentò, aveva un grandissimo seguito
popolare per aver sedato la rivolta dei Baroni, accogliendo le richieste dei
ceti meno abbienti, per aver introdotto la stampa, favorendo fama e carriera di
tanti Napoletani colti, e per aver mostrato sensibilità religiosa e valore
spirituale in numerosi atti simbolici, quale quello di ospitare nella Reggia del
Maschio Angioino o Castelnuovo un frate povero ma amatissimo dal popolo, San Francesco
da Paola, già in fama di santità durante la vita. Una realtà così complessa e
coesa non si sarebbe mai assoggettata a un potere dittatoriale mascherato da
controllo inquisitorio delle coscienze.
Ma, come dicevo, dal 1542 con Paolo III la Congregazione
vaticana assume il controllo sui tribunali locali periferici così che, in tutti
i casi in cui si prospetti una condanna, gli inquisitori periferici sono tenuti
a dar conto personalmente del proprio operato, a inviare gli atti dell’istruttoria
a Roma per il riesame, il giudizio definitivo e l’eventuale esecuzione della
sentenza. Proprio a motivo di questa impegnativa procedura, secondo alcuni, l’inquisizione
patavina avrebbe preferito essere indulgente con Galileo Galilei[20].
31. Galileo Galilei cerca i codici della
realtà non l’essenza della verità e trova il bello nella ragione che spiega il
mistero e dona potere. Scrive Enrico Bellone: “Galileo può ancora oggi regalare
l’idea che la scienza cerca la verità e la bellezza, e può vivere solo nella
libertà”[21].
Eppure, Galileo sembra in ogni modo affermare che la
scienza non cerca la verità[22], intesa
nel senso assoluto della filosofia o della religione, ma solo il vero sperimentale,
ossia ciò che si può verificare con l’esperienza e dimostrare con la ragione,
ovvero ciò che si può cercare con metodo e comprendere con la matematica. Galileo
non si oppone all’idea di doversi limitare al ruolo di misuratore, come vogliono
i filosofi accademici, e in realtà il suo approdo teorico è indotto da necessità.
Accade infatti in quel periodo, in dimensioni
cosmiche ed epocali, quanto accade costantemente nella scienza in ambiti più
limitati: gli sviluppi della ricerca e l’accumulo di nuovi dati possono entrare
in contraddizione con i presupposti teorici e obbligare i ricercatori a una
revisione della concezione di partenza. Ogni campo di ricerca, infatti, si avvia
sulla base di un quadro teorico che costituisce l’ambito di ragione entro cui
hanno senso e valore i dati che si cercano e le nozioni che si deducono; col proseguire
degli studi e l’accumulo quantitativo di elementi, o per effetto di scoperte
che costituiscono importanti cambiamenti qualitativi, la cornice teorica di
partenza diventa insufficiente o inadeguata, e va riformulata alla luce delle
nuove acquisizioni.
In realtà, erano filosofi e teologi accademici ad
invadere il campo della scienza senza esserne consapevoli, per l’elaborazione di
un pensiero originato dall’antico errore di prendere alla lettera il linguaggio
metaforico delle sacre Scritture riferito al cosmo, e poi sviluppato,
attraverso il sostegno con idee aristoteliche al modello geocentrico tolemaico,
in una forma sempre più rigida, apodittica e dogmatica[23].
Questo problema è così chiaramente presente a Galileo
che lo assimila quasi all’errore che in filosofia si chiama nominalistico,
consistente nell’attribuire all’astrazione semantica delle parole la qualità
delle cose reali: “I nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza
delle cose, e non l’essenza ai nomi, perché prima furon le cose, poi i nomi”[24].
Una questione, infatti, che appare evidente nella
vicenda galileiana è che le autorità accademiche che fanno appello a quelle
religiose, quali custodi dell’ortodossia, identificano il firmamento con la
sede materiale del divino, confondendo il “cielo” con il “Cielo”. Un’assimilazione
del letterale al metaforico che sicuramente non può essere desunta dai testi
evangelici e non è appartenuta alla teologia e alla pastorale dei primi secoli
del cristianesimo.
L’uso metaforico nelle sacre scritture, e
segnatamente nel Vangelo, di parole come “cielo” e “cuore” è un’evidenza fuori
discussione: il valore semantico distinto, nel primo caso della dimensione divina
dalla massa d’aria che sovrasta la Terra e nel secondo caso della coscienza con
la sua affettività dall’organo che fa circolare il sangue, è facilmente intuito
anche da un bambino. L’espressione evangelica “il Regno dei Cieli è in mezzo a
noi” costituisce il migliore esempio del valore metaforico caratteristico del
senso spirituale cristiano della dimensione celeste.
Uno studio molto interessante da fare, anche se notevolmente
impegnativo, è l’analisi diacronica degli scritti degli autori cristiani per cogliere
l’epoca in cui comincia ad affermarsi un’accezione letterale, per cercare di
comprendere la genesi e le ragioni di un errore che appare così consolidato tra
i contemporanei di Galileo da far riflettere.
Considerata la notevole e pervasiva influenza della
filosofia d’oltremanica sulla cultura continentale, ho cercato con intense
letture in lingua originale di saggi di autori britannici sulla cultura del
Seicento un riscontro o, quantomeno, qualche similitudine con la concezione
italiana che assimila lo spazio di osservazione astronomica alla dimensione
trascendente. Non ho trovato nulla, né tra i cattolici, né tra i puritani, né
tra gli anglicani e, come era facile supporre, nemmeno negli scritti dei filosofi
empiristi.
Possibile che nella cultura latina e neo-latina, secondo
quei modelli di condizionamento linguistico dell’errore logico desunti da
Wittgenstein, si sia inconsapevolmente sviluppata una tendenza di pensiero, poi
razionalizzata come tesi dottrinaria? Sicuramente molti scarterebbero questa
possibilità come ipotesi troppo ardita, ma credo che indagare questo aspetto
linguistico come causa o, al contrario, come effetto di un modo
di pensare sia tutt’altro che irragionevole.
È interessante notare che nell’idioma delle popolazioni
anglosassoni, vari secoli prima della nascita dell’inglese moderno, esisteva già
una dicotomia lessicale, con due termini distinti per indicare il cielo: heaven
e sky[25].
Heaven è una parola che viene registrata
nell’inglese antico già prima del XII secolo e indica il firmamento o, particolarmente
al plurale, la sede della divinità e della dimensione di vita immateriale che
coincide con il Paradiso per i cristiani. Di antica tradizione l’uso di heaven
come termine eufemistico o sostitutivo per non nominare apertamente la divinità.
Sky è un termine nato nel XIII secolo
per indicare l’atmosfera più alta o l’espansione di spazio che ci appare come
una volta sopra la terra. Molto raramente, e soprattutto prima dell’età moderna,
talvolta si trova impiegato come sinonimo di heaven. In ogni caso, dopo
il Medioevo la distinzione rimane abbastanza netta e chiara, al punto che nell’uso
recente sky è stato adottato quale metonimia di “condizione meteorologica”
o addirittura nel senso di “clima” – come nella locuzione temperate English
skies di G. G. Coulton – e il verbo to sky si impiega, prevalentemente
nell’uso britannico, col significato di lanciare qualcosa in aria.
Sperando che qualcuno tra i lettori si sia
incuriosito al punto da approfondire con uno studio specifico questo aspetto
della psicologia linguistica dei soggetti storici, torno alla concezione
galileiana fondata sulla distinzione e separazione tra il sapere rivelato
e la conoscenza ottenibile attraverso lo studio razionale dell’esperienza.
Galileo è fermamente convinto che la principale missione
della scienza consista nel descrivere la natura in termini fisici e nel
cercare, per quanto possibile, di individuarne il mathema costitutivo;
tuttavia, solo dopo molti anni, nel Saggiatore, dichiarò compiutamente
la sua visione in un brano fin troppo noto, ma che non posso esimermi dal riportare:
“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro
che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non
si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri
ne’ i quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono
triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile
a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un
oscuro laberinto”[26].
La conoscenza di questo approdo ci fornisce uno strumento
importante per comprendere l’aspetto più significativo della visione della realtà
di Galileo, e va al cuore della sua concezione di ciò che è ammirevole, ma non
esaurisce tutti gli aspetti della sua esperienza della bellezza spirituale,
letteraria, figurativa e ideale. L’intensa vita sociale e le frequentazioni
culturali di alto valore hanno sicuramente arricchito e stimolato una mente sempre
attiva e sensibile, quale quella dell’astronomo pisano.
Che Galileo e Caravaggio si siano conosciuti e brevemente
frequentati, con ogni probabilità presso salotti come quello dell’amico comune
Paolo Gualdi, si può solo dedurre perché non vi sono documenti che lo provino
direttamente[27].
Ottavio Leoni, l’autore dell’unico ritratto di Caravaggio realizzato da un
altro artista[28],
ritrasse anche Galileo Galilei; nell’Ecce Homo dipinto da Michelangelo
Merisi nel 1601, la somiglianza del Pilato con Galileo ha indotto alcuni autori
a ipotizzare che l’astronomo pisano abbia posato per Caravaggio. Un fatto è
certo: la nuova cultura figurativa e le sue peculiarità in rapporto all’estetica,
alle priorità comunicative e ai contenuti emozionali sono note a Galileo.
Se, attingendo alle tracce storiche documentali confrontiamo
l’atteggiamento psicologico e spirituale dei maggiori artisti di quegli
anni con quelli del secolo precedente, notiamo che si è fortemente indebolito,
se non è in qualche caso scomparso, il riferimento prioritario a Dio, implicito
e personale, ma spesso anche esplicito per le tematiche religiose delle opere[29].
L’artista rinascimentale lavora per compiere il
volere divino e mettere a frutto i talenti secondo il dettato evangelico, ponendo
in subordine gloria, fama e profitto. Leonardo, Michelangelo, Raffaello e tutti
i maggiori protagonisti della rinascita culturale e spirituale concepiscono il
senso primario dell’arte quale mezzo di rapporto con la dimensione
trascendente, nel solco di una concezione cristiana riflessa in quella purezza
di cuore presupposta nella frase di Sant’Agostino: il vostro desiderio è la
vostra preghiera. Un motto che riesce difficile attribuire a molti
protagonisti della scena artistica barocca, che sembrano orientare contenuti ed
estetica della propria arte verso le mode più redditizie, con una vita costellata
di pubblici peccati e reati.
Venuta a cadere la demonizzazione di molte manifestazioni
di culture di sostrato o esotiche, accade che le espressioni di eccentricità delle
feste popolari, le esibizioni di saltimbanchi e fachiri venuti dai paesi orientali,
le attrazioni miracolistiche da fiera divenute giochi di prestigio da teatro, poco
per volta facciano entrare nel costume, creando accettazione sociale, uno stile
comunicativo volto a suscitare attenzione a tutti i costi, a impressionare,
stupire, sorprendere.
In quest’epoca si afferma l’uso del termine effetto
in pittura col significato che conserva al giorno d’oggi, come nell’espressione
riferita dagli esperti d’arte a certe opere non figurative basate su
impressionanti contrasti di luce e colore: “Sono solo effetti non è vera arte”.
L’effetto, ossia l’elemento che colpisce e impressiona
chi guarda il dipinto, è una risorsa del linguaggio pittorico impiegata fino a
quell’epoca con moderazione ed equilibrio nell’economia della composizione, con
due scopi ben precisi: produrre bellezza e accrescere il realismo.
Ad esempio, opposti cromatici che si danno luce a vicenda, contrasti
chiaroscurali estremi, velate trasparenze accostate ad opache consistenze rocciose
e riflessi di luce su oggetti in primo piano, erano ordinariamente impiegati per
accentuare il gradimento delle parti piacevoli attraverso il contrasto, e per suggerire
una gamma di varietà prossima al vero.
Tradizionalmente, e non senza ragione, nella storia
dell’arte il luminismo caravaggesco è considerato un mezzo espressivo di
tematiche intense e talora estreme di amore e morte tipiche del barocco, ma a
me piace pormi nella prospettiva dell’artista stesso, così come fa il regista
cinematografico quando gira una “ripresa soggettiva” rendendo il punto di vista
del protagonista che si muove nell’ambiente circostante, e rilevare le ragioni che
hanno portato Caravaggio a impiegare una luce dominante su altre fonti di luminosità
riflessa e concentrata con un’intensità che rivela le forme in modo nitido, limpido,
con un’evidenza maggiore di quella della stessa realtà.
Scontata l’osservazione relativa al possesso di una
capacità tecnica tale da poter ormai impiegare le procedure e le soluzioni
luministiche con disinvolta naturalezza, si deve notare che un contrasto così estremo
tra tinte chiare e tinte scure avrebbe potuto incontrare la disapprovazione di
molti maestri depositari della maniera rinascimentale, come degli alti prelati
assuefatti alla dolce gamma cromatica estesa nei toni intermedi, tipica dei capolavori
esposti nelle chiese monumentali italiane.
La scelta luministica rivela un’intenzione
ben precisa: Caravaggio si rivolge direttamente al pubblico come fanno coloro
che cercano fama attraverso la popolarità; sa che la gente comune sarà colpita
dal suo verismo e riconoscerà di non aver mai visto nulla di simile. Non si
preoccupa dei custodi del gusto estetico, rompendo per la prima volta quel rapporto
di sudditanza con le grandi scuole rinascimentali che aveva caratterizzato
tutto il manierismo.
Con Caravaggio si verifica un cambiamento di
dimensioni epocali, perché tradizionalmente i referenti privilegiati degli artisti
erano gli artisti stessi. Infatti, non esistevano critici d’arte come quelli attuali,
che spesso non hanno né talento, né formazione tecnica, né pratica da artisti[30]; la
critica la facevano i veri competenti dell’arte, con l’inconveniente di avere a
volte giudizi troppo severi perché condizionati da rivalità, ma col vantaggio
che spesso i maestri riconoscevano i veri talenti, li incoraggiavano e li
presentavano al mondo[31].
In precedenza, il grande pubblico era implicitamente
incluso nel sentimento prevalente e considerato propenso ad apprezzare ciò che più
valeva per pregio e tecnica; in quest’epoca, gli artisti sono interessati al gusto
popolare e a quello particolare degli innumerevoli piccoli committenti che chiedono
dipinti per completare l’arredo con raffigurazioni appropriate agli ambienti, secondo
preferenze che seguono i modelli della pittura di genere.
In quelle botteghe di pittura lombarde dove si insegnavano
le procedure dei Veneti non meno delle nuove tecniche di disegno del dettaglio,
i maestri, come Simone Peterzano[32], abilissimi
nella figurazione e nel ritratto, avevano progressivamente specializzato
settori della propria bottega per la realizzazione di soggetti particolari, che
oggi facciamo rientrare nel novero delle nature morte.
Sparse di pesci argentati con molluschi vivi e invitanti
limoni appena tagliati che fanno capolino tra verdi alghe umide e trasparenti; pernici,
fagiani, beccacce, starne e altra selvaggina da piuma con penne di colori
cangianti adagiata su piani posti innanzi a pareti dove pendono dai ganci lepri
e conigli dal morbido pelo; alzate o cesti di frutta, con grappoli d’uva dai
chicchi trasparenti, pesche dalla superficie vellutata, prugne ad ogni stadio
di maturazione, limoni di un elegante e freddissimo giallo, melograni aperti
come scrigni di rubini, e poi, tra brocche, calici e caraffe, arance parzialmente
sbucciate con nastri di scorze che sembrano decorare i frutti tagliati e posti
a riflettere la loro tinta intensa su vassoi d’argento, richiamando i petali
variopinti di grandi fiori ornamentali che assorbono la luce, che fa stille
sulle gocce d’acqua e attraversa i vasi di cristallo, dando caustiche da sogno su
bianche tovaglie o su eleganti copritavolo di pizzo[33].
La tecnica di riproduzione pittorica degli strumenti
musicali si evolve creando un ramo distinto di specializzazione, al punto che
alcuni pittori di figure pagano degli specialisti per farsi inserire liuti o
ghironde nei loro dipinti.
Di tutto quanto ho appena scritto Caravaggio, poco più
che fanciullo, era divenuto maestro indiscusso. Aveva acquisito, con questo apprendistato,
la buona regola di cercare sempre la procedura migliore per ogni tipo di
realizzazione: c’è sempre un segreto, come nei giochi di prestigio, per rendere
possibile ciò che l’esercizio renderà perfetto. La magia esiste solo per lo spettatore,
per l’artefice è questione di intelligenza, conoscenza e impegno perseverante.
Dalla pittura specializzata e di genere Caravaggio
ha appreso la cura del particolare e ha conosciuto il piacere della perfezione,
che applica a suo modo anche allo studio della figura: le procedure impiegate
ordinariamente per dipingere un volto nella tecnica del ritratto sono da lui seguite
per dettagliare ogni parte del corpo, come è evidente nell’Amor vincit omnia
ora al museo di Berlino[34].
L’opera è, in ogni sua parte, un saggio di
virtuosismo pittorico, col quale Michelangelo Merisi si presenta al mondo attraverso
il suo prestigioso committente, ossia il marchese Vincenzo Giustiniani[35]. Per l’autore,
il simbolismo ha un valore del tutto secondario rispetto allo scopo principale
di stupire con la sua abilità: il corpo del giovinetto che rappresenta Amore,
per il quale aveva posato Cecco Boneri[36], il suo
allievo prediletto, è una prova della sua straordinaria capacità di riprodurre il
nudo, come ogni altra cosa dal vero. Caravaggio pone Boneri nella stessa
posizione di San Bartolomeo[37] nel Giudizio
Universale di Michelangelo Buonarroti, ma non fa minimamente riferimento alla
morfologia di quel corpo di uomo maturo e al disegno michelangiolesco, esibendo
la sua capacità di riproduzione fotografica che non necessita di prototipi tecnici,
anzi li supera di gran lunga per realismo.
A proposito di realismo, la geniale trovata delle
scurissime ali d’aquila copiate e ingrandite dal vero che fanno risaltare il
corpo di Amore in piena luce, si deve al prestito delle superbe appendici
mobili imbalsamate del rapace da parte dell’amico pittore Orazio Gentileschi[38].
Il simbolismo, che implica la vittoria dell’amore
sulle arti, è reso con la riproduzione ai piedi del fanciullo di vari elementi,
fra cui spiccano uno spartito e due strumenti musicali: un liuto con cinque corde
invece di dodici e un violino cui sono rimaste solo due corde; si tratta di strumenti
in disuso copiati con eccellente precisione[39].
Caravaggio, con la stessa cura con la quale progetta
le sue opere, costruisce il suo personaggio, seguendo la convinzione diffusa a
quel tempo tra i pittori secondo cui, per contrastare la fama leggendaria dei grandi
del passato, fosse necessario diventare “mito vivente”.
Sempre lontano dalla sua Milano e dalla famiglia,
cerca di esercitare il fascino dello straniero avvolgendo di mistero la sua
vita e, costretto a prendere i pasti in locali pubblici, approfitta delle
circostanze per fare pubbliche relazioni e diffondere la fama delle sue imprese
artistiche. Cura particolarmente l’aspetto e l’abbigliamento; scrive in proposito
il pittore contemporaneo Gregorio Sciltian: “Michelangelo da Caravaggio, non
appena guadagnava qualche ducato d’oro, si vestiva di abiti così belli che ne
parlava tutta Roma. Li portava finché non erano a brandelli”[40].
Ama il gioco, in cui vuol sempre vincere, difende l’onore
e il prestigio con la spada[41], ma si
lascia prendere la mano dalle sfide, forse perché certo di prevalere per la sua
maggiore abilità, forse perché galvanizzato dal potere che può esercitare
brandendo un’arma, forse per ragioni psicologiche di personalità e di vita vissuta
che non potremo mai conoscere, ma sicuramente secondo un costume costante che
era divenuto parte di sé, condizionandone l’esistenza.
Michelangelo Merisi non crea solo uno stile di pittura
che dà luogo al movimento artistico del caravaggismo, ma costituisce anche il primo
prototipo di pittore schermitore, che si fa giustizia da solo con la spada. Alcuni,
accostando i suoi modi a quelli degli antichi cavalieri hanno voluto vedervi un’origine
nel suo secondo maestro di pittura, il Cavalier d’Arpino, al secolo Giuseppe
Cesari; ma si tratta di una suggestione poco fondata, forse per un equivoco
sull’appellativo. Infatti, il maestro di Caravaggio, già Principe dell’Accademia
di San Luca, aveva ricevuto l’onorificenza di Cavaliere di Cristo come
riconoscimento per la bellezza e il valore dell’Ascensione che aveva dipinto
in affresco in San Giovanni in Laterano[42].
Seguendo la tradizione dei pittori spadaccini, che cercano
col pennello e con la spada di modificare ad arte la realtà, Salvator Rosa
diviene in segreto un paladino dei poveri e degli oppressi. Nato a Napoli[43] nel quartiere
Arenella – secondo Cesare De Seta dal Cinquecento diventato nuovo centro della
città – dopo l’apprendistato, per reagire alle angherie perpetrate ai danni dei
più deboli dalla dominazione spagnola dopo la rivolta di Masaniello, assumeva l’identità
occulta di uno schermitore imbattibile e inafferrabile che, abbigliato in nero
con maschera e mantello, sembrava emergere dall’ombra per fare giustizia al momento
opportuno e poi rientrare nelle tenebre senza farsi identificare. Detto il Formica,
e da nessuno mai nemmeno accostato al pittore dai modi raffinati e dal sereno spirito
arcadico, appariva come la materializzazione di un personaggio di fantasia in
grado di irrompere nella realtà per renderla migliore[44].
Il segreto di Salvator Rosa era custodito dal suo amico
e condiscepolo nella bottega di Aniello Falcone, ossia Micco Spadaro, figlio di
un noto forgiatore di spade e autore di dipinti che documentano i grandi eventi
della Napoli del Seicento, come la spettacolare eruzione del Vesuvio, la rivolta
di Masaniello e la peste del 1656. Micco Spadaro, nome d’arte di Domenico Gargiulo,
è l’esempio emblematico di una generazione di artisti che, recitando un personaggio,
aveva fatto dell’interpretazione creativa e romanzata della vita un mezzo per avvicinare
il più possibile la propria identità reale a quella ideale.
A questa possibilità di stile comportamentale si giunge
per gradi, e all’origine si possono riconoscere proprio i significativi mutamenti
antropologici registrati sul finire del secolo precedente, quando in molti si oppongono
allo stile mentale dominante in passato, cui sfuggivano solo i nobili ricchi e
gli artisti di successo, costituito dal rassegnato subire una vita priva di
stimoli, di possibilità, di novità, di prospettive, di orizzonti, di occasioni;
una vita che spegne ogni entusiasmo e rischia di soffocare anche la speranza.
Galileo osserva il cielo esplorando, immergendosi, percorrendo
con la mente le distanze astronomiche in un attivo perlustrare e scandagliare con
gli occhi, ma partecipando come se entrasse fisicamente, camminando, correndo e
fermandosi, nelle dimensioni spaziali che indaga. Non ritiene che esplorare il
cielo sia tanto diverso dall’esplorare i mari: come Colombo non aveva consultato
le Sacre Scritture o i teologi, ma aveva confidato nella sfericità della terra
e negli studi dei cartografi per compiere l’impresa di giungere alle Indie da occidente
e scoprì l’America, così Galileo vuole esplorare con gli occhi e i calcoli il
cielo, senza occuparsi di metafisica.
Viaggia nel cielo portando sé stesso, con i principi
del movimento che sta scoprendo nel campo gravitazionale terrestre e con il
desiderio di conoscere, trovando realmente e materialmente il nuovo, secondo un
costume mentale sentito come modo e possibilità di vita.
All’origine di un tale spirito vi era certamente in
dote abbondante quella naturale spinta esplorativa che oggi il sapere
neuroscientifico associa biologicamente a uno stato di buona salute psicofisica,
contrapposto all’inibizione mentale degli stati depressivi e patologici, ma sicuramente
vi era anche una significativa personale interpretazione psicologica e culturale
della dinamica conoscitiva, che dall’epistolario e da altri documenti
sembra emergere fornendoci uno spunto interessante e suggestivo: la conoscenza
come avventura.
Per avventura si intende un’impresa rischiosa
ma ricca di fascino per le sorprese positive che può riservare: l’avventura non
esiste in quanto tale nella realtà oggettiva ma è uno stato della mente
che investe di qualità positiva gli ostacoli e le difficoltà, esprime fiducia
nelle proprie risorse e capacità, e sviluppa un’intensa reazione di piacere ad
ogni esperienza di conoscenza. Per la pervasività e coerenza funzionale degli
elementi psichici che lo compongono, corrisponde a ciò che chiamo quadro mentale.
L’avventura, intesa come stato mentale evocabile, è all’origine di un genere
letterario che poi, col cinema, è diventato un filone cinematografico specializzato
in tante diverse tipologie, dalla trasposizione dei romanzi d’avventura ai cosiddetti
film “on the road”, dalle avventure turistico-amorose a quelle spaziali
fantascientifiche.
Nella concezione di Galileo la dimensione personale
dell’avventura sembra emergere da scritti e documenti e prevalere decisamente
sulla missione etico-estetica caratteristica dei grandi del Rinascimento[45]. La
componente culturale che ha favorito l’espressione di questa inclinazione si
può facilmente riconoscere fra gli studiosi che preferiscono l’indagine della
realtà alla lettura dei classici.
Il Seicento è il secolo in cui emerge dall’ombra e
dall’anonimato, acquisisce tratti peculiari e viene in auge una nuova figura: l’artefice
non artista[46].
Storicamente può considerarsi un’evoluzione identitaria
originata dalla confluenza di ruoli la cui radice si può rintracciare nello spazio
antropologico della magia medievale, nel quale vi erano preparatori di filtri e
pozioni che intendevano mutare le facoltà psicofisiche, alchimisti che
cercavano di produrre artificialmente l’oro, indagatori della natura in cerca di
una pietra, una pianta o una fonte che garantisse l’eterna giovinezza. La nuova
identità è data anche dalla perdita del carattere diabolico e stregonesco degli
eredi superstiti dell’antica tradizione dei druidi e di altre culture arcaiche di
sostrato, attraverso l’integrazione nella società cristiana.
L’artefice non artista emerge dopo la
ridefinizione cristiana della figura del mago che troviamo in Marsilio Ficino,
il grande promotore del neoplatonismo fiorentino: “In conclusione ci sono due
generi di magia: uno è quello di coloro che con determinato rituale si procurano
l’amicizia dei demoni, forti del cui aiuto spesso producono portenti (e questo tipo
di magia fu completamente abolito, quando fu cacciato di regno il principe di questo
mondo); l’altro è quello di coloro che, nel rispetto di determinate procedure,
riconducono materie naturali a cause naturali, in maniera che acquistano forma,
in modi che suscitano l’ammirazione”[47].
L’ultima frase è rilevante in funzione della concezione
della bellezza, prodotta col conferire ragione alla natura e mostrarla, ma in
Marsilio Ficino ritroviamo soprattutto le argomentazioni che recuperano la
figura del “mago”, per secoli demonizzata: “Da questa officina vennero i Magi,
primi tra tutti ad adorare Cristo appena nato. Perché mai il nome di mago ti
deve far paura? Nel Vangelo è nome gradito e non significa malefico o venefico,
ma sapiente e sacerdote. Che cosa vuole essere infatti il mago che fu il primo
adoratore di Cristo? Se vuoi saperlo egli è una specie di coltivatore del
campo, o meglio, un coltivatore del mondo; ma non per questo egli adora il
mondo, come neanche il coltivatore del campo adora il campo”[48].
Un secolo dopo, non è più necessario ribadire che la
passione per la realtà naturale non deve considerarsi idolatria, perché ormai è
consolidata l’esistenza in tutta Europa di empirici che oggi possiamo descrivere
come figure a metà strada tra i depositari di segreti esoterici e i naturalisti
ottocenteschi.
L’artefice non artista si distingue dal filosofo
tradizionale per il fatto che non è primariamente impegnato in studi di ontologia
e metafisica che comunica ai suoi pari, ma interroga la natura e, quando trova fenomeni
nuovi e strabilianti, li propone a un suo pubblico, che spera sia il più vasto possibile.
Anche se tende ad esibirsi, non può essere confuso con i maghi da fiera, perché
il suo non è un mestiere col fine primario del profitto, ma una missione nel
campo della conoscenza. È un “uomo delle meraviglie”, che cerca e trova il meraviglioso
in natura e lo presenta per donare agli altri quello stesso stupore che ha provato
quando l’ignoto si è dischiuso ai suoi occhi come sorprendente, eccezionale e inusitato.
Giovanbattista Della Porta è forse l’esempio più
rappresentativo di un tale uomo delle cose straordinarie, e la sua opera
De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti (1560)[49], per
concezione e contenuti rimane un documento unico per comprendere il senso della
scienza come avventura di meraviglia. Il saggio, che compare a Venezia
due anni dopo la prima versione in latino[50], è la
stupefacente raccolta di curiosità, effetti straordinari, processi ingegnosi,
accorgimenti e giochi che spaziano dall’agraria alla fisiognomica, dalle
scienze naturali alla mnemotecnica, dall’ottica all’anamorfosi, dall’etimologia
alla criptografia, in un testo intenso, vivace, mai pedante e spesso realmente
sorprendente, come nell’incipit di questa ricetta: “Taglia la testa a un
cavallo overo a un asino, vivo, accio che non sia la virtù più debole, et abbia
una pignatta tanto grande che la vi entri, empiela d’olio e di grasso di porco,
per modo che la sia coperta…”.
Giovanbattista Della Porta è sorpreso dall’enorme
successo della sua opera e si trova a ventitré anni già famoso e con tante richieste
di versioni in varie altre lingue; si legge infatti: “…è stato un libro straordinariamente
fortunato e diffuso. Ne furono fatte ventitré edizioni dell’originale latino, dieci
traduzioni italiane, otto francesi ed altre spagnole, olandesi e altre arabe”[51]. Si
deduce che ben pochi studiosi suoi contemporanei non abbiano letto il De i
miracoli o Magiae naturalis, come spesso veniva citato dalle prime
due parole del titolo latino. L’invidia per tanta fama e la meschinità di alcuni
che lo ritengono un rivale nella conquista del consenso intellettuale portano a
una denuncia per stregoneria; ma il tribunale dell’Inquisizione riconosce la
totale infondatezza dell’accusa e proscioglie Giovanbattista Della Porta da ogni
addebito[52].
Con l’intento di condividere l’esperienza della
meraviglia, fonda a Napoli l’Accademia dei Secreti, i cui membri dovevano aver
scoperto almeno un segreto di natura; ma questo innocente e allegro sodalizio dà
fastidio ad alcuni potenti, che ne ottengono la soppressione col sospetto di stregoneria.
Il Della Porta, che nel frattempo era diventato un fortunatissimo autore di
teatro con ventinove commedie di grande successo per la sapienza dell’intreccio
e la brillante e divertente intensità dei dialoghi[53], non
si lasciò abbattere dallo scioglimento della sua associazione scientifica e,
nel 1610, contribuì alla ricostituzione dell’Accademia dei Lincei con Federico
Cesi – che l’anno successivo accolse come nuovo membro Galileo Galilei – e
fondò una sezione napoletana della stessa Accademia, assumendo la carica di vice
del principe.
L’introduzione del metodo sperimentale da parte di
Galileo Galilei sembra determinare il superamento e l’accantonamento definitivo
di tutti quegli aspetti legati alla tradizione e che causavano con-fusione tra
la straordinarietà del mondo naturale e quella di chi la indaga, come avveniva nell’identità
del mago. Carlo Lapucci nella sua presentazione del Della Magia così si
esprime, paragonando il Della Porta a Galileo: “Dalla sua nascita (1535) a quella
di Galileo (1564) intercorrono circa trent’anni; fra le osservazioni del primo
e le pagine scientifiche del secondo pare che sia passato molto più tempo. Il
genio di Galileo ha contribuito ad abbagliare fin quasi a far scomparire un
mondo quanto mai interessante, nel quale l’uomo muoveva i suoi passi verso il
metodo scientifico, animato dal desiderio, dalla curiosità, dalla vivacità
dello spirito”[54].
Considerato l’elemento comune tra l’eclettico napoletano
e l’astronomo pisano, costituito dalla dimensione avventurosa della ricerca
quale viaggio nei segreti della natura, la differenza tra i due nella concezione
della bellezza mi consente di caratterizzare in sintesi e per contrasto la
visione di Galileo.
Per Giovanbattista Della Porta la bellezza è nel meraviglioso
della natura che ha in sé il sorprendente e il misterioso; per
Galileo Galilei la bellezza è nella ragione che dissolve il mistero e dona
il piacere e il potere della conoscenza.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-25 settembre 2021
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di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1]
L’opera di Giraldi è l’Hecatommithi
(1565) e Il Moro di Venezia è la settima novella della terza decade.
[2] Vi sono documenti che provano la
visita di Shakespeare alle Isole Eolie.
[3]
A. Waugh, Keeping Shakespeare Out of Italy, in J. M. Shahan and A.
Waugh, Shakespeare Beyond Doubt? Exposing an Industry in Denial, Llumina Press 2013.
[4] Cfr. Will e Ariel Durant, L’Apoteosi
Inglese, pp. 42-50, in L’Avvento della Ragione, Vol I, in Will
Durant (a cura di), Storia della Civiltà, Edito-Service Editore, Ginevra
per Arnoldo Mondadori, Milano 1963.
[5] I marginali senza lavoro ma
abili sono reclutati per costruire gli edifici di internamento o per lavorare alla
logistica di adattamento dei palazzi requisiti a tal fine; le fabbriche basate
sul lavoro degli internati producevano dal tessile alle lenti ottiche di precisione,
con un guadagno per lo stato “imprenditore” che forniva vitto e alloggio ai
lavoratori.
[6] I Gesuiti furono espulsi dal Giappone
e poi, progressivamente, da tutti gli stati in un processo irreversibile che si
concluse con la soppressione dell’Ordine da parte del Papa. L’azione dei Gesuiti
fu fondamentale per l’abolizione della schiavitù in Brasile, come per l’eliminazione
del cannibalismo, ma ciò avvenne accanto all’esportazione di un modello di sviluppo
economico molto distante dai principi evangelici.
[7] Ancora adottate dalla Chiesa Cattolica.
Ai Domenicani medievali si deve anche il S. Rosario, da loro inizialmente concepito
come la meditazione di 20 misteri alternata a 20 serie di Ave Maria, per un totale
di 200 Ave Maria.
[8] I membri della Congregazione
della Santa Inquisizione.
[9] Galileo Galilei, che Cartesio si
guarda bene dal menzionare esplicitamente, così come si guarda bene dal citare l’argomento
censurato, ossia la tesi eliocentrica del moto della Terra intorno al Sole, che
era stata oggetto di un suo scritto intitolato Mondo, non più pubblicato.
[10] La negazione è una sorta di “abiura
preventiva”.
[11] Notare il “mi avrebbe impedito di
pubblicarla”.
[12] Cartesio, Discorso sul metodo
per ben condurre la propria ragione e ricercare la verità nelle scienze, p.
59, Oscar Mondadori, Milano 2007.
[13] Thomas Hobbes, Leviatano,
in 2 voll., II vol., p. 365, Fabbri Editori, Milano 1995.
[14] L’impiego delle pratiche rituali
di una religione si afferma spesso nella dimensione dell’abitudine, perché in molte
persone assume efficacia psicoadattativa. Il meccanismo principale sembra essere
costituito dalla neutralizzazione di contenuti mentali problematici nella dimensione
atemporale del rito, che sembra privarli del loro potere evocativo di risposte
ansiose e di altre forme di sofferenza psichica.
[15] Fu il Papa San Pio X nel 1908 a cambiarne
la denominazione in Sacra Congregazione del Sant’Uffizio.
[16]
Helen Rawlings, The Spanish Inquisition, p. 15, John Wiley & Sons, New
York 2005 (prima ed. 2004).
[17] Ferrante Sanseverino era nato a
Napoli il 18 gennaio del 1507 dalla nobile famiglia napoletana dei Sanseverino
che aveva possedimenti in Salerno. Era nipote di Re Ferdinando II d’Aragona
detto “Ferdinando il Cattolico”.
[18] Cfr. Lanfranco Caretti (a cura
di) Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, in Cronologia pp.
XXXVII-XXXVIII, “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1976. Il palazzo di Ferrante Sanseverino
a Napoli dal 1584, pur conservando la sua facciata, è convertito nella chiesa
del Gesù Nuovo, per questa ragione architettonicamente unica come tempio
cristiano.
[19] I lavori, promossi da Alfonso
II, furono possibili grazie al finanziamento della famiglia Strozzi che aveva a
Napoli una filiale della sua banca di Firenze per il pagamento degli artisti
della nutrita “colonia” di Fiorentini.
[20] Alcuni autori citano pronunciamenti
di autorità, che in realtà erano routinari in questi casi, interpretandoli come
interventi in difesa di Galileo Galilei, e sostenendo che tali interventi avrebbero
“salvato” il matematico.
[21] Enrico Bellone, Galileo: le opere
e i giorni di una mente inquieta, p. 1, Le Scienze, Milano 2000.
[22] Che la scienza non cerchi la verità
e lo scienziato sia sempre libero di esporre le proprie congetture anche se appaiono
assurde ai filosofi è affermato già dal teologo Osiander, presentando il trattato
di Copernico del 1543 letto da Galileo.
[23] Si erano costituite in questo campo
quelle “parole dure come sassi” di cui parla Nietzsche in Aurora, contro le quali,
inciampando, è più facile che ci si rompa una gamba che si riesca a spostarle.
[24] Cit. in Enrico Bellone, op. cit.,
p.13.
[25] Le informazioni che seguono sono
tratte dagli studi dei lessicografi della commissione Merriam-Webster, che attingono
ad una tradizione di 150 anni, che ebbe inizio con i documenti raccolti da Noah
Webster tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.
[26] Galileo Galilei, Il Saggiatore,
capitolo VI, Roma 1623: stampato con l’imprimatur del teologo domenicano Nicolò
Riccardi e la dedica al nuovo Papa Urbano VIII da parte degli Accademici dei Lincei.
Il trattato nasce da una disputa col gesuita Orazio Grassi sull’origine delle comete:
Grassi propose un’origine delle comete in un trattato, Galileo rispose a nome di
un suo allievo, Mario Guiducci, con un Discorso delle comete; Grassi allora
scrisse la Libra astronomica ac philosophica con lo pseudonimo di Lotario
Sarsi (“Lotario Sarsi Sigensano” era anagramma di Oratio Grassi “di Savona”
nell’antico idioma). Galileo stette al gioco e scrisse un’articolata risposta a
Lotario Sarsi ma, questa volta, a proprio nome: Il Saggiatore, nel quale con
bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica
e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano. L’analisi critica contemporanea ha
rivalutato alcune obiezioni di Grassi, che si erano perse nello spregio e nel
ridicolo gettato da Galileo, il quale approfitta di alcuni strafalcioni del sacerdote
per discreditarne tutta l’opera.
[27] In mancanza di un contratto di
commissione per un dipinto o di una denuncia – atti che hanno consentito di attestare
molti rapporti di Caravaggio – si possono solo fare deduzioni.
[28] Realizzato a gessetti e carboncino
su carta; tutte le altre immagini del volto del Caravaggio sono autoritratti,
veri o presunti tali.
[29] Non è un caso che Caravaggio
tradisca il senso delle tematiche religiose: nelle Sette Opere di Misericordia
per colpire lo spettatore raffigura una donna che offre un seno alla bocca di un
vecchio (la cosiddetta “carità romana”), presentando un peccato di lussuria
come opera di misericordia.
[30] Alludo soprattutto alla deriva dell’ultima
parte del Novecento, caratterizzata da critici che gestivano il “discorso sull’arte”
e il mercato delle opere, interpretandone il senso e il valore in base a una
pseudo-ermeneutica tratta da costruzioni intellettualistiche alla moda, che spesso
riducevano l’artefice a una sorta di inconsapevole esecutore in preda alle
virtù di un inconscio depositario del significato, da loro “rivelato” all’osservatore.
[31] Abbiamo visto il caso di Filippo
Brunelleschi che al concorso per le porte del Battistero di Firenze riconosce Lorenzo
Ghiberti più bravo di lui e rinuncia alla commessa in favore del rivale.
[32]
Simone Peterzano, allievo di
Tiziano e maestro di Caravaggio, fu pittore completo ricordato soprattutto per
gli affreschi milanesi nel segno della spiritualità di San Carlo Borromeo, ma anche
pregevole esecutore di ritratti olio su tela (v. autoritratto del 1589)
con la tecnica che sfrutta la trasparenza del fondo, poi ampiamente usata da
Caravaggio.
[33] L’arte del pizzo nata a Venezia
nel Quattrocento era praticata e apprezzata in territorio lombardo e nel resto d’Italia.
[34] Il titolo dell’allegoria è tratto
dal celebre verso di Virgilio omnia vincit amor et nos cedamus amori (Egloghe
X, 69).
[35] Giustiniani pagò 300 scudi il dipinto:
(ASR, Archivio Giustiniani, Sezione Famiglie. Inventari 35, busta n. 10). Giustiniani,
grande amico del Cardinale Dal Monte, il più importante committente di Caravaggio,
comprò il San Matteo e l’Angelo realizzato per San Luigi dei Francesi, ma
rifiutato per motivi di decoro.
[36] Francesco Boneri detto Cecco non
era “un monellaccio romano che viveva con lo stesso pittore e che forse era il suo
amante”, come si legge in Wikipedia (ipotesi infondata, avanzata da Richard Symons
e ripresa da molti studiosi omosessuali come fosse un fatto), ma un ottimo allievo
che poi realizzò opere come la Cacciata dei mercanti dal tempio (al Museo
di Stato di Berlino), per le quali è unanimemente considerato uno degli interpreti
più originali del caravaggismo europeo. All’epoca era uso costante che gli
allievi abitassero in casa di maestri e professori, come nel caso di Vincenzo
Viviani ed Evangelista Torricelli che vivevano con Galileo. Caravaggio fu anche
maestro d’armi di Boneri che, per il frequente ricorso alle armi bianche, acquistò
fama di uomo dal “pugnale facile”. Boneri è stato identificato anche con il “paggio”
di cui parlava Antonio van Monder che, all’uso del tempo, da ragazzo portava le
armi e si occupava della cavalcatura, come i valletti di nobili e cavalieri.
[37] Alcuni autori, che hanno sostenuto
l’omosessualità di Caravaggio senza disporre di prove, hanno ritenuto che la posa
“scandalosamente rivolta agli osservatori” del giovane modello comprovasse l’orientamento
omosessuale del maestro; naturalmente ignorando che si trattava della posa di
un santo della Cappella Sistina, come compiutamente si legge in Maurizio Marini,
Caravaggio pictor praestantissimus, p. 468, Newton Compton, Roma 2005. L’accostamento
al San Bartolomeo era già stato proposto in uno studio del 1973-74.
[38] Lo sappiamo dal suo racconto nella
deposizione al “Processo Baglioni”. Orazio Gentileschi era un pittore di alto
livello tecnico con grandi abilità nella gamma cromatica dei toni chiari; padre
di Artemisia, aveva adottato il cognome materno e dal padre, Giovan Battista Lomi,
aveva preso l’identità fiorentina, pur essendo lui nato a Pisa.
[39] Giustiniani, musicista dilettante
e autore di uno studio di argomento musicale, era fra coloro che si dolevano
perché il liuto era caduto in disuso con la musica barocca, scritta quasi esclusivamente
per tiorba padovana, uno strumento a corde derivato dal liuto ma con otto
cori e otto bordoni da suonare esclusivamente a vuoto.
[40] Gregorio Sciltian, Trattato
sulla Pittura, p. 30, Hoepli, Milano 1980.
[41] Ferì il notaio Mariano Pasqualone
per aver insidiato la sua fidanzata Lena. Giocando a pallacorda con Ranuccio Tommasoni,
rivale nell’amore per Fillide Melandroni, a causa di un fallo, vi litigò e il diverbio
sfociò in duello: Caravaggio fu ferito e, a sua volta, colpì il Tommasoni, ma
mortalmente. L’omicidio portò alla condanna in contumacia per decapitazione (da
cui le tante teste mozzate, a volte autoritratti, che appaiono nei suoi dipinti)
con esecutività della sentenza dovunque fosse stato rintracciato. La revoca della
sentenza da Parte di Paolo V, per intercessione del nipote Scipione Borghese amico
di Caravaggio, non raggiunse in tempo il pittore che morì forse di brucellosi a
soli 38 anni.
[42] Il Cavalier d’Arpino, maestro anche
di Guido Reni, affrescò la volta della sagrestia della Certosa di San Martino a
Napoli.
[43] Caravaggio ebbe studio e ultima
dimora a Napoli in Palazzo Cellamare (Via Chiaia) dove era ospite di Costanza Colonna;
non lontano operava il grande caravaggista maestro di Salvator Rosa Jusepe de
Ribera (lo Spagnoletto), inizialmente attivo ai Quartieri Spagnoli (dove
lavorava Caravaggio nel primo periodo napoletano) presso la bottega del suocero,
il pittore Giovanni Bernardino Azzolino.
[44] Alessandro Blasetti realizzò il primo
film sull’artista spadaccino, intitolato Un’avventura di Salvator Rosa e
interpretato da Gino Cervi. La doppia vita del pittore napoletano ispirò anche
il romanziere Johnston McCulley nel creare il personaggio di Don Diego de la Vega,
che in segreto si trasforma in Zorro (la Volpe), lo spadaccino mascherato e avvolto
in un mantello nero, che difende i deboli nella Los Angeles del tempo in cui la
California era colonia spagnola.
[45] La concezione della conoscenza come esperienza avventurosa è probabilmente
sempre esistita nella storia umana, ma la sua caratterizzazione culturale attraverso
figure sociali e associazioni a supporto è tipica dell’epoca moderna e in
Europa ha avuto tra il Settecento e l’Ottocento, con Goethe, la sua consacrazione.
Il prototipo del “Viaggio
in Italia” è rimasto nella cultura mitteleuropea. I viaggi di studio, che non sono più la periegetica storico-geografica
degli antichi Greci o l’arte specializzata di esploratori e navigatori, sono concepiti
come conoscenza di paesi e popoli per diretta esperienza.
[46] È una mia definizione concepita
per opposizione rispetto alla caratterizzazione artistica dell’homo faber
rinascimentale, con l’intento di includere tutte le figure rilevanti in quella transizione
che ha portato al definirsi dell’identità sociale dello scienziato moderno.
[47] Marsilio Ficino, De vita,
Appendice, p. 435, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1991. Si noti: l’ammirazione
per i modi.
[48] Marsilio Ficino, op. cit., idem.
[49] Dell’opera originale esiste un esemplare
autentico di proprietà della Signora Eleonora Giaconi, che ha concesso alla casa
editrice D’Anna di Firenze di realizzare per copia anastatica un’edizione fuori
commercio in esemplari limitati; possiedo uno di questi esemplari sul cui frontespizio
si legge: DEI MIRACOLI ET MARAVIGLIOSI EFFETTI dalla natura prodotti. LIBRI IIII,
DI GIOVANBATTISTA PORTA Napolitano, nuovamente tradotti di Latino in lingua
volgare et con molta fatica illustrati. IN VENETIA appresso Ludovico Avanzi MDLX.
[50] Giovanbattista Della Porta, Magiae
Naturalis, sive de Miraculis rerum naturalium, libri IIII, M. Cancer, Napoli
1558.
[51] Vasco Ronchi, Storia della luce
– Da Euclide a Einstein, p. 97, Laterza, Bari 1983. Già nella seconda edizione
appaiono acute considerazioni sul cannocchiale, sul microscopio e sulla camera oscura.
[52] Molti anni dopo, l’economista e magistrato
francese Jean Bodin riformulò l’accusa, che risultò ancora una calunnia.
[53] Cfr. Giambattista dalla Porta, Commedie,
4 voll., Gennaro Muzio, Napoli 1726; M. Torrini, Giovan Battista Della Porta
nell’Europa del suo tempo, Guida, Napoli 1990.
[54] Giovanbattista Della Porta, Dei
Miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti, p. V (Presentazione),
In Venetia appresso Ludovico Avanzi MDLX, nell’anastatica fuori commercio citata
in precedenza.